Per un nuovo inizio
Una lunga attesa di anni, poi tre film indissolubilmente connessi l’uno all’altro, tre percorsi di erranza e di potenziale rinascita, tre opere − The Tree of Life, To the Wonder e, in ultimo, Knight of Cups − con cui Terrence Malick ha imposto la propria lezione di meraviglia, indagando senza sosta il riflesso interiore di forme e superfici terrene, cercando di dare una risposta alla domanda di senso dell’essere umano.
Presentato in concorso alla Berlinale 2015, Knight of Cups percorre la (non)storia di Rick, milionario sceneggiatore hollywoodiano, di cui nulla sappiamo con certezza se non che − fratture familiari alle sue spalle, un zigzagare svilente a occupare il suo presente, una continua proiezione di futuro nelle relazioni con bellissime figure femminili destinate a scomparire − il tempo della sua vita si è fermato, accartocciato, polverizzato. Rick è un cavaliere smarrito, cercava il Graal ed è svanito tra le stesse immagini che, probabilmente, la sua mente ha trasferito sulla carta, declinandole in plots e location: grandi e luminosi grattacieli del potere, feste di opulenza e perdizione, le strade della città dove, dietro a vetrine o auto di lusso, si nasconde il dolore degli ultimi. Gli stessi volti che compaiono, in primo piano o da sfondo alla messinscena di una messinscena, sono quelli dei grandi attori dello star-system contemporaneo. I loro corpi spettacolari trasformati in comparse, messi a nudo, privati di ogni metodo certo. Il fante in cerca di perle non sa più cosa fare, dove andare, cosa guardare, come farlo: ogni luogo, ogni immagine, gli appare quale negativo di quanto potrebbe essere. La realtà rovesciata, la vita a testa in giù. Occorre un ribaltamento ulteriore, simile a un’onda che, arrivando dal mare carica di luce, cancelli i solchi ineluttabili e riscriva il presente. Sia chiaro, il percorso di Rick non lo riscatta da uno specifico evento doloroso: l’evento scatenante è stare al mondo, indossare la ferita che ci abita dal momento stesso in cui vi facciamo ingresso, assetati immediatamente di grazia e d’amore. Quello di Malick è un cinema che scarta la narrazione non per rifuggire un conflitto, semplicemente perché non crede nei fatti creati per evidenziarlo. Il conflitto è (da) sempre, abita gli occhi di chi guarda ben prima dell’inizio del film, condensa presente passato e futuro entro un incedere labirintico e sensoriale, alla ricerca di un barlume di verità. Scrisse Seneca nel primo secolo dopo Cristo che nel tempo della riflessione possiamo domandarci se “la materia da cui traggono origine tutte le cose è continua e piena, o discontinua e il vuoto è frammisto agli elementi”. In tempi di recente scoperta delle onde gravitazionali, le cui immagini non possono non riportare a The Tree of Life, il linguaggio e lo stile con cui Malick modella la rappresentazione si nutrono della linfa preziosa della discontinuità, altro non sono che una parte di quello che lo spettatore può vedere: negli scarti di montaggio che scandiscono le inquadrature − maestose e vibranti − di Knight of Cups, nel desiderio frammentario di natura e universo che muove i suoi personaggi, abita quella porzione mancante che spetta a noi esplorare e, se vogliamo, dilatare come finestra spalancata sulla coscienza. E così ricominciare.
Knight of Cups [id., USA 2015] REGIA Terrence Malick.
CAST Christian Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Freida Pinto, Antonio Banderas.
SCENEGGIATURA Terrence Malick. FOTOGRAFIA Emmanuel Lubezki. MUSICHE Hanan Townshend.
Sperimentale, durata 118 minuti.