La dissoluzione di un mondo
Contaminando documentario e finzione, il cinema di Pietro Marcello è oggi in Italia uno dei più significativi esempi di scarto dal canone e dialogo profondo con la realtà. L’opera dell’autore casertano, classe 1976 e una formazione nel cinema da autodidatta, sembrerebbe abitata dai fantasmi di un passato in cui memoria, nostalgia e senso di perdita si intrecciano senza effettiva soluzione di continuità, per testimoniare la dissoluzione di un mondo che ormai coincide con l’idea stessa di un Paese.
Lo dimostrava molto bene il documentario Il passaggio della linea che, raccontando in forma liquida, onirica, il viaggio dei pendolari sui treni espressi a lunga percorrenza, declinava la palpabile testimonianza del labirintico spegnersi di una stagione. I volti e i corpi dei personaggi del film attraversano la notte con addosso la consapevolezza tangibile di un esilio, quello da un tempo di lotte e rivendicazioni sociali ormai snaturate dal senso che fu, in cerca di una stabilità esistenziale irrintracciabile. Emarginati ma non per questo sconfitti erano i protagonisti di La bocca del lupo: nella ricostruzione della storia d’amore tra Vincenzo, tornato libero dopo una lunga pena detentiva, e Mary, transessuale con un passato di droga e un presente di amorevole grazia, la lirica del privato si intreccia alla ricognizione di una Genova inedita, dove i dedali del centro storico abbandonano finalmente l’allure da cartolina e le periferie paiono vibrare di una vitalissima speranza. Espressione di un neosottoproletariato quasi invisibile, Enzo e Mary sono guide di un viaggio indietro nel tempo, lungo le contraddizioni irrisolte del secolo breve, nella stessa città da cui, simbolicamente, presero il via gli ideali risorgimentali che determinarono la genesi di una nazione. A colpire nel lavoro di Marcello è la reinvenzione dei materiali di repertorio, la cui giustapposizione alla ricerca documentaria fa di questo film un viaggio nell’inconscio italico, con le sue promesse tradite e il permanere di un’urgenza di riscatto. Una simile poetica abita Il silenzio di Pelešjan, opera che nel rivendicare l’omaggio a uno dei riferimenti estetici di Marcello, il regista armeno Artavazd Pelešjan, diviene stratificata ricognizione sul fare cinema, tra atteggiamento osservativo, parola fuori campo e repertorio: ne deriva un’esperienza cinematografica complessa, un diario di lavorazione sul mistero inaccessibile dell’immagine. Un ulteriore scarto è determinato da Bella e perduta, film in cui, più che in passato, Marcello si confronta con la scrittura di finzione, senza tuttavia completamente assecondarla: la fantasia fiabesca di un Pulcinella incaricato di calarsi in Italia per salvare un piccolo bufalo destinato al macello si intreccia alla storia vera di Tommaso Cestrone, angelo protettore della reggia di Carditello. Il viaggio del bufalotto Sarchiapone tra la Campania e la Tuscia apre una riflessione sul paesaggio italiano come specchio di una bellezza e di una cultura in progressiva dissoluzione, di fronte alle quali a un destino di morte certa riesca a contrapporsi una speranza di sopravvivenza. Potrebbe essere la sintesi di un cinema votato alla causa degli ultimi, a partire dai quali le immagini si facciano strumento per fotografare l’involuzione del reale e a un tempo possano cartografare ipotetiche vie di fuga e rinascita.