SPECIALE TORINO FILM FESTIVAL STORY
Travestire il documentario
Esther, l’esordio da non-documentarista di Gitai è uno di quei rari e preziosissimi momenti in cui la forma dell’opera nasce col contenuto. Esther è protagonista di uno dei racconti più belli dell’Antico Testamento, le sue origini ebraiche sono sconosciute al Re di Siria che la prende in moglie, ma nel momento in cui il suo popolo viene minacciato di sterminio lei insorge, implorando per la sua salvezza.
Solo una vecchia storia? Solo un simbolo edificante di pietà e provvidenza? Gitai ha il senso della Storia, lo dimostrano i documentari girati per la tv israeliana, impreparata a opinioni tanto aperte; ha il senso della connessione, dell’analogia, sa prendere una casa e trasformarla in un confine (Bayt, 1980), sa catturare oggetti come nature morte e con essi raccontare la follia dello Yom Kippur (Ahare, 1974), sa prendere un racconto morale di circa duemila anni e fargli parlare di attualità. Così tra le rovine di Wadi Salib, città da cui furono espulsi sessantamila arabi cristiani dopo la guerra del ’48, lasciando una città fantasma, Amos Gitai porta i suoi personaggi: Esther, Mardocheo, il re Assuero, il primo ministro Aman e numerosi figuranti. Il set è lasciato così com’è, il Re ha il trono in un edificio diroccato e dorme in un letto all’aperto, tranne per pochi elementi decorativi le uniche figure vive sono quelle umane, vestite in modo circense, come attori improvvisati di un piccolo teatro, con stoffe appena spiegate e fissate con qualche spilla. Fasci colorati di luce illuminano le mura e le inquadrature rassomigliano più a miniature o a vetrate che a cinema fatto da un documentarista. Ma già nelle prime scene le inquadrature fisse inducono lo spettatore a cercare punti d’interesse, a guardare un personaggio o l’altro, inducono in qualche modo a cercare una chiave, un inganno, ed eccolo apparire alla terza inquadratura, perché il cinema, quando è grande, sa suscitare domande e sa rispondervi. Tre personaggi di spalle salgono le ampie scale che accedono alla città, l’erba è incolta e ascoltiamo rumori di una città moderna, clacson, motori, un’ambulanza, un muezzin che richiama alla preghiera. Ecco il genio, ecco il documentario travestito, ecco lo squarcio nella tela subito messo innanzi e di lì in poi guardiamo altro e oltre. In questo non-finito in questo girare volutamente senza le condizioni di un set c’è tutto il Gitai che verrà. Quando Aman verrà condannato a morte tra i clamori del popolo si fa avanti un gruppo di ragazzini in abiti moderni, presi, si immagina, per le strade poche ore prima della scena. La realtà si prende ormai tutto il quadro e reclama lo svelarsi dell’analogia: Aman, sterminando il popolo d’Israele, voleva ridurre i conflitti con l’autoritarismo, eliminare le differenze estirpandone la radice, mentre Esther è il dialogo, la diplomazia possibile e vincente. Ora gli attori sono sciolti dal loro ruolo e Gitai può seguirli mentre si svestono e raccontando le proprie storie tornano sulla strada trafficata, nella città reale.
Esther [id., Israele 1985] REGIA Amos Gitai.
CAST Simona Benyamini, Mohammed Bakri, Juliano Merr, Zare Vartanian.
SCENEGGIATURA Amos Gitai, Stephan Levine. FOTOGRAFIA Henri Alekan, Nurith Aviv. MUSICHE Claude Bertrand.
Drammatico, durata 97 minuti.