La carne non è acqua
Verida e Sidi sono su un marciapiede, in piedi una di fronte all’altro; intorno è tutto buio, mescolato alle luci dell’ultimo bar ancora aperto. Lui le chiede cosa c’è, perché lo stia evitando. Lei alza la testa e prima di andarsene dice solo una cosa: «Grazie di avermi guardata». Perché lo sguardo in questo film è tutto quello che conta.
Qui come ovunque, le donne e i loro corpi sono sempre interpretati, riletti, mediati, secondo un modello di perfezione estetica. Arroccato nel suo iperuranio intangibile, fatto di valori misti a credenze religiose, questo ideale risulta tanto più presente quanto più non c’è, quanto più non si raggiunge. Impalpabile, si imprime sui corpi plasmando la carne, trattandola come fosse acqua, costretta ad adattarsi al recipiente che la contiene. Verida è una promessa sposa, i genitori le hanno trovato un marito che viene da una famiglia molto facoltosa. In Mauritania per molte donne questo significa l’inizio di un rito chiamato gavage, che consiste nel raggiungere un peso ideale di circa cento chili entro il giorno delle nozze. Nella cultura africana le forme abbondanti non sono solo sinonimo di benessere economico, ma anche garanzia di una gravidanza portata a termine. Verida inizia questo percorso quasi naturalmente, trasportata dagli eventi, ma non ingrassa. Mangia dieci pasti al giorno ma non ingrassa: si alza di notte per trangugiare scodelle di latte e ossa di pollo, affonda la dita in enormi porzioni di cous cous, prende il dreg dreg, una pillola avuta in segreto da un’amica durante una wengala, ma non prende comunque abbastanza peso. Questo è un problema: per sua madre, per sua nonna, soprattutto per il suo futuro sposo. Tutto quello che vedono di Verida sono le sue forme velate che non lievitano. Una volta a settimana il rituale della bilancia scandisce l’incubo di un corpo che si rifiuta di conformarsi. Con un paradossale rovesciamento del canone occidentale del magro ad ogni costo, Michela Occhipinti ha realizzato il suo primo lungometraggio come uno specchio storto, più che deformante, dei condizionamenti estetici a cui siamo abituati. Un riflesso in cui la nostra cultura riesca a catturarsi più lucidamente, messa a confronto con un opposto che non è poi così distante come potrebbe sembrare. Con le sue inquadrature fisse, che scandiscono la monotonia del rito e delle giornate di Verida, schiacciata tra una cultura in cui le smagliature sono considerate un segno di bellezza e i corpi scultorei e patinati dei social del resto del mondo, Il corpo della sposa è una riflessione sulla transitorietà dei modelli estetici, e soprattutto sul loro relativismo. Dai documentari realizzati in precedenza Occhipinti si tiene stretto il taglio cronachistico e la scarsa spettacolarità per connotare un film che racconta una storia quotidiana, concepito come la documentazione visiva di un rituale, di un lento procedere verso il punto di rottura. La ripetitività dei gesti, l’ingozzarsi di cibo e la consistenza pastosa e viscida della materia alimentare inducono uno stato di nausea anche nello spettatore, e traducono un meccanismo di rigetto fisico in una ribellione alle costrizioni sociali. Una rivolta biologica prima che intellettuale, che trasmette un unico, perentorio messaggio: qualsiasi forma la donna sia costretta ad assumere, la violenza che subisce per raggiungerla è sempre, inevitabilmente, la stessa.
Il corpo della sposa – Flesh Out [Italia 2019] REGIA Michela Occhipinti.
CAST Verida Beitta Ahmed Deiche, Amal Saad Bouh Oumar, Aminetou Souleimane, Sidi Mohamed Chinghaly.
SCENEGGIATURA Michela Occhipinti, Simona Coppini. FOTOGRAFIA Daria D’Antonio. MUSICHE Alex Braga.
Documentario, durata 95 minuti.