Come poter vedere un iperoggetto
Terra e pandemia. Argomento di struggente attualità. Ciò che abbiamo provato in questi mesi è senza dubbio un’esperienza nuova per la nostra società, soprattutto per il modo in cui avevamo concepito i ritmi delle nostre vite e del mondo. La pandemia è, per usare un concetto coniato dal filosofo Timothy Morton, quello che potremmo definire un “iperoggetto”. L’iperoggetto designa entità di una tale dimensione spaziale e temporale da incrinare la nostra stessa idea di cosa sia un “oggetto”. Le sue caratteristiche principali sono la “viscosità” e la “non-località”. L’iperoggetto è in pratica qui e altrove, siamo tutti immersi in esso ma non riusciamo a toccarlo con mano, ne percepiamo la grandezza, ma anche l’infinita piccolezza. È un qualcosa che avvolge tutto ciò che ci circonda. Ma andiamo per gradi.
Prima di tutto una breve riflessione su come il cinema ha concepito e messo in scena il fenomeno della pandemia. Ci sono degli esempi sicuramente utili per poter effettuare un ragionamento che si sviluppi parallelamente a un breve percorso all’interno di questo sottogenere specifico della fantascienza. Il primo che viene in mente è L’ultimo uomo della terra (1964) di Ubaldo Ragona (o Sidney Salkow). Il film affronta la questione pandemica da un punto di vista prettamente intimistico, con il dottor Morgan (interpretato da Vincent Price) ultimo sopravvissuto a un virus che ha trasformato le persone in vampiri: quella che ci viene raccontata è soprattutto la routine di un essere umano che rischia di perdere il senno a causa della solitudine.
C’è un modo ancora grezzo di rappresentare i dettagli scientifici, ma quello che interessa a Ragona/Salkow (attraverso Matheson, che presta soggetto e sceneggiatura) è appunto delineare forme di comportamento all’interno di una possibile situazione postapocalittica. Il film è effettivamente interessante proprio perché si sofferma su questi aspetti e, a differenza di prodotti di poco successivi, focalizza l’attenzione anche su elementi di un immaginario che si confronta strettamente con gli obblighi imposti da un virus che ha sterminato quasi un’intera popolazione. L’ultimo uomo della terra è uno dei film più originali sull’argomento, perché riflette prima di tutto sul problema e la causa, solo successivamente sulle conseguenze biomediche. Ciò che infatti seguirà le orme di questo lavoro avrà forme che produrranno come binomio principale quello di virus e morti viventi, che nella maggior parte dei casi sarà semplicemente un aggiornamento del film di Ragona/Salkow. Proseguendo rapidamente il nostro percorso, tra le opere più intriganti degli anni Settanta abbiamo Andromeda (1971) di Robert Wise: qua il virus viene dallo spazio ed è un elemento all’inizio sconosciuto, sul quale viene fatta luce con lo scorrere della narrazione. L’aspetto più interessante risiede nel porre l’attenzione sulla possibilità che esista qualcosa di infinitamente piccolo che possa potenzialmente mettere in crisi un sistema su grande scala. I protagonisti assoluti, di nuovo, sono gli scienziati chiamati ad analizzare l’entità biologica; tutto il film gioca abilmente sul fatto che si riescano a rendere attraenti e ricche di suspense anche le scoperte e i processi di ricerca che ruotano attorno allo studio di un virus. È una veduta ulteriore, che ci convince che forse un film totalmente dedicato all’osservazione del fenomeno in sé potrebbe essere quello definitivo. Ma per avere la prima opera che mette in scena la dinamica, più o meno reale, di una vera e propria pandemia – sintetizzando tutti gli elementi di interesse elencati poc’anzi nei due capisaldi del sottogenere – bisogna attendere gli anni Novanta con Virus letale (1995) di Wolfgang Petersen. Il film di Petersen, infatti, pone da un lato il problema del virus in sé, della comprensione della sua natura, della ricerca del portatore sano e di altri problemi “scientifici”, dall’altro la solitudine dello scienziato (tuttavia qui, rispetto a L’ultimo uomo della terra, è solo intima e personale e non reale) e l’accentuazione degli elementi più orrorifici. Quello che però Virus letale aggiunge è un’amplificazione della questione politica (in Andromeda era accennata, viaggiava sottotraccia, solo nel finale deflagrava), con tutta la spettacolarizzazione necessaria per poterne virare i temi in una dimensione da blockbuster.
Questi sono, a mio parere, i tre film più utili per comprendere le direzioni intraprese dal cinema di fantascienza nella rappresentazione della questione epidemica/pandemica fino alla fine degli anni Novanta dello scorso secolo. Ma per quanto riguarda invece i film più recenti? Credo che al di là di alcune opere che (con la scusa della pandemia) evidenziano contenuti più che altro simbolici e metaforici – mi vengono in mente l’ottimo E venne il giorno (2008) e il leggermente inferiore It Comes at Night (2017) – siano tre film molto interessanti a delineare due nuove tendenze specifiche fondamentali. Il primo è Contagion (2011) di Steven Soderbergh, perché, come scrive Giulio Sangiorgio, “preferisce alla retorica kolossal catastrofista un realismo dettagliato della messa in scena, colto da un digitale privo di vezzi, corrispettivo visivo di un film che mai si lascia sedurre da facili drammatizzazioni” e che quindi mostra una ricerca di dettagli che sottolineano perfettamente e scientificamente un possibile stato di crisi del sistema. Gli altri due, ribaltando nuovamente questa ultima linea e riprendendo il discorso del binomio virus e morti viventi (molti sono i lavori di questo tipo in questo nuovo millennio, ma pochi veramente interessanti), sono film di prospettiva: World War Z (2013), infatti, affronta il virus dal punto di vista dell’Occidente sfrenato e rocambolesco, il cui unico obiettivo è il vaccino, ma per ottenerlo in tempi record qualcosa in qualche modo è necessario rischiare; l’altro, il recentissimo #Alive (2020), lo affronta dall’Oriente, raccontando il contenimento, la comunicazione rapida e collaborativa, l’organizzazione metodica e individuale per poter sorpassare (anche se non proprio tutti) indenni lo stato di crisi. Sono film che – anche se non straordinari sul piano estetico e stilistico – ben immagazzinano le nostre esperienze recenti con l’entità pandemica, fotografata in un momento che rispecchia l’attualità. Ci mostrano mentalità in parte diametralmente opposte nell’affrontare il problema e, in alcune sfumature, ci indicano anche cosa, forse, potremmo migliorare per ammortizzarne meglio le sue implicazioni sociologiche.
Arrivati a questo punto, tornando a Morton e alla sua filosofia, cosa rimane allora di questo specifico iperoggetto – la pandemia – nel suo rapporto con il cinema? Quasi niente, mi verrebbe da dire, perché la grandiosità del cinema questo riesce a fare: osservare un oggetto inglobante e inconcepibilmente enorme, rendendocelo visibile, concretamente percepibile e dunque alla portata della nostra umana e limitata comprensione.