Per non dimenticare Nico D’Alessandria
C’è sempre una Storia del cinema ufficiale e un’altra sotterranea, occulta, che scorre in modo carsico e per vari motivi non viene studiata né riconosciuta. Quando si parla di underground italiano, nel suo vero significato, ossia l’essere “clandestino”, spesso si punta il dito verso una direzione sbagliata: non lo era Claudio Caligari, che nei suoi tre film aveva comunque alle spalle una produzione – seppure accidentata -, e nei suoi non-film le produzioni gli sbattevano in faccia il rifiuto, perché troppo scomodo, troppo fuori dalla logica corrente. Il vero underground è stato Nico D’Alessandria. Regista di pochi film, come Caligari, ma realizzati “senza produzione”: prendeva i pochissimi soldi a disposizione, gli attori-amici, le sue fissazioni (i matti, la solitudine, lo smarrimento esistenziale) e girava le sue storie che sono essenzialmente tutto un grande girovagare, per le strade di Roma, un movimento vorticoso ma non centripeto, bensì casuale, anarchico, senza meta. La meta è se stessi.
Ecco perché un libro su Nico D’Alessandria oggi diventa particolarmente importante: lo ha scritto Natasha Ceci, si chiama Uomini fuori posto. Il cinema di Nico D’Alessandria (Digressioni Editore, 2021). E l’autrice, collaboratrice di Alias e Il Manifesto, l’ha scritto dannatamente bene: prima di tutto nella prosa, intesa come capacità di raccontare il cinema senza incartarsi né parlarsi addosso, ma in modo limpido, facendosi capire, “per tutti”. Poi come gesto di ricerca: perché di Nico D’Alessandria tutti conoscono L’Imperatore di Roma (1987), la storia dell’eroinomane Gerry Sperandini detto “caimano bianco”, che si aggira per la città “come un gattaccio del Colosseo”. Ma in pochi sanno cos’è il primo mediometraggio del regista, Passaggi del 1980, oppure l’ultimo, Regina Coeli del 1999, uno dei pochi film che descrive la vecchiaia in focalizzazione interna attraverso lo sguardo di una “vecchia”. E ancora prima la trasmissione radiofonica Rai di cui fu autore e regista, Processi mentali, nello stesso anno della legge Basaglia (1978) che implicitamente contesta, mostrandone i limiti. Tutto questo c’è nel libro di Ceci, che fa archeologia del cinema: da rabdomante va a cercare e trovare ciò che è nascosto, escluso anche dalle leggende che circondano D’Alessandria.
L’analisi critica è puntuale e avvincente, soprattutto nel fare chiarezza su alcuni confronti storici: come quello con il post-neorealismo o col cinema di Pasolini – vedi l’accostamento tra L’Imperatore e Accattone -, sottolineando poche assonanze e molte divergenze. Scrive Natasha Ceci: “D’Alessandria non è riconoscibile come autore dallo stile cristallizzato e per questo ancora più peculiare nell’intensità con cui costruisce le sue storie e pedina i suoi personaggi”. Il regista insomma “è un’isola tra le isole”.
Sempre in quest’ottica di riscoperta, il punto forte del libro sono le lettere: quelle che si scambiano Nico e Gerry Sperandini, rinchiuso in manicomio dopo l’inizio della lavorazione del film, aspettando l’uscita del caimano bianco per girare. Il carteggio è stato selezionato da Ceci e si può leggere qui per la prima volta. Così com’è, allo stato brado, senza punteggiatura. Come giusto che sia. Un esempio? La lettera di Gerry del 13 luglio 1985: “Caro Nico, qui mi sento bene e non vedo l’ora che mi scarcerino così potremmo girare il film bellissimo (…). purtroppo una volta ripresi si lascia vedere che il posto è sporco perché quando uno sta bene incomincia a vedere le cose sbagliate e per certo non è un piacere stare in cella con degli ammalati gravi psichicamente e ognuno di loro soffre di qualche malattia al cervello. Io invece sono un tossicomane e che ci sto a fare qui in mezzo a tutti questi matti”. Ecco cosa s’intende per archeologia. Per ricordare (bene) Nico D’Alessandria e i suoi disperati.