I limiti del linguaggio filmico
“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” diceva Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus Logico-Philosophicus e questa frase è anche la pietra angolare su cui Derek Jarman, nel 1993, basa Wittgenstein, il suo penultimo film che torna restaurato nelle sale.
Non una biografia, ma una mostra dei suoi pensieri e dei suoi concetti incastonata nella cornice della vita del filosofo austriaco, dall’infanzia come giovane pensatore a disagio col mondo che lo circonda fino all’età adulta quando i suoi pensieri diventano libri che in un certo senso cambiano la storia della filosofia, ma soprattutto distruggono la solidità della mente dello stesso Ludwig.
Pensato come opera “didattica” su commissione per la tv inglese, Wittgenstein diventa nelle mani di Terry Eagleton e Ken Butler, sceneggiatori assieme allo stesso Jarman, una sorta di esplorazione brechtiana del suo pensiero, nel senso di messa in scena straniata e teatrale in cui su sfondo nero emergono i colori di James Welland e le scene e i costumi sgargianti di Annie La Paz. Camera fissa, di solito in campo medio o in primo piano, scene stilizzate che però non sono i tableaux vivants di Greenaway, anzi hanno un loro movimento interno, una leggerezza che è anche quella del testo stesso, dell’approccio che Jarman ha verso una materia densa, pesante, confinante con l’accademismo d’avanguardia, piena di accenni tragici, che il regista britannico sa invece dosare con ironia e accenni di humour paradossale. Il tutto rafforzato da una recitazione tutt’altro che straniata, anzi espressiva, sottile, mai criptica, come dimostrano il piccolo Clancy Chassay nel ruolo del giovane Ludwig e la strepitosa Tilda Swinton che interpreta Lady Ottoline Morrell.
Con questi elementi in gioco, Jarman sonda i limiti del linguaggio cinematografico e dell’oggetto filmico accettando i precetti del filosofo e tramutandoli in elementi di stile e di visione. Wittgenstein è un’opera teatrale e televisiva, cinematografica e artistica (di Jarman ricordiamo un memorabile Caravaggio del 1986) in cui la definizione di ciò che è o sembra, come opera o persona, è importante tanto quanto l’interpretazione che si dà dell’oggetto, ovvero la funzione primaria del linguaggio e dei suoi limiti, l’immagine cinematografica che accede al pensiero, forse che diventa pensiero. Limiti che Jarman ha introiettato in modo straziante e straordinario, se pensiamo che il suo film successivo, quello con cui chiuderà la sua carriera e la sua vita, è Blue, uno schermo blu lungo 76 minuti che fa da sfondo a parole e suoni, realizzato prima della morte per AIDS e concepito al sopravvenire della cecità. I limiti del mondo di Jarman sono i limiti della lingua che il suo cinema ha parlato prima di tacere.