Il dado è (as)tratto
Tra gli aggettivi più abusati oggi dai critici e dai giornalisti di cinema c’è ‘iconico’, che in italiano significherebbe legato all’immagine, relativo alla somiglianza tra un oggetto e la sua rappresentazione figurativa e simbolica, ma che calcato sull’inglese ‘iconic’ ha un altro significato, ovvero quello di un’immagine – ma non solo – divenuta di per sé un simbolo, come le icone della tradizione sacra qui piegate alla logica spettacolare. Ecco, se questo aggettivo e questa sfumatura hanno un senso lo possiamo trovare intatto in I guerrieri della notte, il film diretto da Walter Hill nel 1979, oggi restaurato e distribuito nelle sale.
Il suo grado di “iconicità” lo si deve in primis alla struttura narrativa scelta da Sol Yurick, autore del romanzo da cui Hill e David Shaber hanno tratto la sceneggiatura: partendo dall’Anabasi di Senofonte (che Hill terrà a mente anche per il successivo I guerrieri della palude silenziosa), il racconto vede una gang di New York, i Warriors, dover affrontare un viaggio nella notte cittadina che pullula di nemici, i quali sono furiosi con loro perché li ritengono responsabili della morte di Cyrus, una specie di guru spirituale per tutte le bande della città. Da qui, I guerrieri della notte comincia un’avventura che – ed eccoci al secondo elemento che lo ha reso un cult infinitamente citato, per ultimo dalla speaker radiofonica di John Wick 4 – plasma le sue immagini astraendosi dalla realtà. Nella New Hollywood che virava verso la fine del suo sogno, in cui il miraggio del kolossal d’autore, del realismo oltre ogni ragione, si stava infrangendo contro la nascita del blockbuster moderno, Hill puntava a un approccio che, per sguardo filmico e approccio produttivo ma non per ambizione o capacità, virava verso il B-Movie e soprattutto verso il fumetto, che qui fa da esplicito filo conduttore della narrazione, e questa astrazione dalle forme del cinema contemporaneo prende vita anche nello stile, che punta a riprendere i personaggi, gli attori e le scene come spazi di un “quasi-musical”, in cui i corpi si muovono al ritmo dei colpi che si infliggono, degli stacchi del montaggio di Freeman Davies Jr., David Holden, Susan E. Morse e Billy Weber, delle coreografie di Antone Pagan (memorabili quelle sotto la metro o il duello nel parco con i Baseball Furies) che paiono rileggere in chiave decadente quelle del teatrale West Side Story.
Anche in questo elemento di devozione al musical (classico di Hill, come si vedrà meglio in Strade di fuoco) si vede l’eredità di Arancia meccanica, di cui I guerrieri della notte è forse il figlio più bello, ma Hill ci tiene a farlo proprio introducendo il suo principale elemento di stile, almeno per la prima fase della sua carriera, quella per molti migliore, ossia illuminare la metropoli di notte, usare neon e affini per dipingere il paesaggio urbano: basterebbe il meraviglioso incipit iniziale per innamorarsi della fotografia di Andrew Laszlo, del suo modo di esaltare il taglio fumettistico delle inquadrature e l’astrazione estetica dell’immagine, che il restauro riporta alla sua originaria potenza, che rendono le luci di New York gli unici punti di riferimento di una città che ha perso le sue coordinate e che, per ripartire, deve farlo dal sole che termina il film dopo la lunga notte. Un simbolo astratto legato alla potenza di un’immagine: ecco cos’è un’icona.