Circola un’aria strana, ormai da qualche tempo. Ci sono colleghi, cattedratici di cinema e critici, che hanno deciso che il cinema – ovvero il mezzo espressivo che dovrebbero studiare (amarlo forse, ma non pare requisito necessario) – è finito, morto, sepolto.
E sono tutti euforici per il mondo che sta nascendo, per il seppellimento degli autori, per la crisi del circuito d’essai, per la fatiscenza dei grandi festival: godono insomma delle enormi difficoltà del cinema “d’arte”. Intanto, mentre sono impegnati a distruggere la falsa coscienza dei maestri e dei magniloquenti difensori reazionari d’essai, si pongono in ogni aspetto come collaborazionisti del contemporaneo. Pensano (o fingono) di decrittare l’universo neomediale e anti-intellettualistico, e usano gli studi culturali in maniera esattamente contraria a quella per cui sono nati, quindi cercando la bontà intrinseca e la complessità di testi commerciali e presuntamente popolari. Sono tornati ad essere immanentisti, pur sguazzando nell’ovvio. Contenti loro.
Noi invece siamo soddisfatti che Malick abbia vinto la Palma d’Oro e che i Dardenne abbiano vinto il Gran Premio della Giuria, che a Cannes si siano visti fior d’autori e film molto interessanti, che ci sia ancora una differenza estetica tra vedere The Tree of Life o Il dilemma. In verità, nell’epoca della crisi d’intelligenza del comparto cinematografico hollywoodiano e – diciamo così – del sistema simbolico statunitense, mai come ora sembra essere necessario e vivificante il cinema d’autore. Se poi si vuole pensare che l’autore-demiurgo è roba passata, che è meglio volare bassi, che chi vuole ancora oggi reinventare l’universo del vedere e del sentire sia un povero sciocco, padronissimi. Ho sempre avuto una certa ammirazione per chi pensa di vivere nel migliore dei mondi possibili. Basta che poi non ce lo venga a raccontare, perché saremo lì a smascherarne la disonestà intellettuale.