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Miracolo a Le Havre

lunedì 28 Novembre, 2011 | di Lisa Cecconi
Miracolo a Le Havre
Speciale
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La buona novella
“La misericordia di Dio vale in cielo ma qui in terra bisogna imparare a cavarsela da soli” diceva Irma a L’uomo senza passato. Ed è questo che fanno gli eroi di Kaurismäki. Quando la sorte li colpisce, drizzano la schiena e imparano a cavarsela.

Non si lamentano né tantomeno piangono, ché “non serve a niente”. Piuttosto si ostinano e vanno avanti, senza perdere un grammo di dignità, e coloro che hanno imparato insegnano agli altri la lezione. Per questo se arriva un miracolo non ci sembra inopportuno. Sappiamo bene che, con o senza, non si sarebbero arresi.
Miracolo a le Havre è la storia di un prodigio umano, prima ancora che divino. Quello di una modesta comunità francese che accoglie un giovane clandestino del Gabon nascondendolo alla legge. A prendersene cura è il lustrascarpe Marcel (André Wilms), cui l’improvvisa malattia della moglie non impedisce di aiutare Idrissa (Blondin Miguel) a ripartire per Londra in cerca della madre. Giustamente si è parlato di realismo poetico, per le atmosfere eteree a là Carnè (la moglie di Marcel, del resto, si chiama come la “sua” Arletty!) e l’idealizzazione dei personaggi di estrazione popolare. Il fronte unito del quartiere celebra l’umanità della periferia, l’onestà solidale dei poveri diavoli. La stessa comunità della quale, per qualche istante, entra a far parte persino il commissario, previo acquisto iniziatico di un ananas, ostentato come un distintivo, che gli toglie in austerità quel che gli dona in compassione.
Chi ne resta escluso è, invece, il vicino-spia interpretato da Jean-Pierre Léaud, tanto assorbito dal sistema invisibile quanto isolato nell’ambiente in cui vive, perché se l’aiuto è collettivo, la delazione è sempre individuale e non c’è modo di spartirne il peso.

Sullo sfondo dello scontro atavico tra collaborazione popolare ed egotismo piccolo-borghese l’estraneità di Idrissa è in qualche modo paradossale. Nella quiete azzurra di strade e botteghe, nella calma immobile che è propria dei porti, il ragazzo è costretto a correre, rintanarsi negli angoli, rimpiattarsi dentro gli armadi, continuamente “contenuto” da quella stessa città da cui lo vogliono espulso. Ma la sua precarietà non è diversa da quella di Marcel (nome e faccia tosta in linea con la trascorsa Vita da bohéme) e anche Arletty (Kati Outinen) vi si rispecchia immediatamente. Il suo sradicamento le è familiare, lei che è costretta a letto ad ascoltare fiabe mentre Idrissa cucina e, in sua vece, ne accudisce il marito.

Kaurismäki li riunisce in un una fotografia sospesa, che all’indolenza pallida del giorno alterna lame di luce avvolte dalla notte. La denuncia della loro condizione emerge, come al solito, senza clamore dalle pillole di assurdo che costellano il film e che alludono ad assurdità ben più gravi, comunemente accettate come normalità. Nel procedere delle musiche che accompagnano lo svolgimento, ancorate come di consueto a fonti diegetiche e quotidiane (il juke box, la fisarmonica) l’irruzione del silenzio segnala lo strappo nella routine, come nel confronto straordinario tra i poliziotti in tenuta anti-sommossa e i clandestini scoperti nel container, perfetta immagine della società impreparata ad affrontare il rimosso. Il contraltare è il concerto rock che prelude la risoluzione, altro topos kaurismäkiano che sancisce il giusto esito della musica in funzione espressiva. E’ il segnale che il ristabilirsi dell’ordine iniziale non è mero ritorno reazionario, ma sottintende un’emancipazione, un mettersi alla prova reso possibile dall’incontro fortuito con l’altro. Lo sguardo del ragazzo che si allontana sulla barca ribalta il punto di vista su Le Havre, contrappunto dei campi lunghi del porto, metafora di un’esistenza perennemente aperta all’ignoto. E nella reciproca comprensione si compie il miracolo vero e proprio.

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