La scorsa settimana il gigante chef pluristellato della cucina italiana, Antonino Cannavacciuolo, è tornato su Fox con il suo Cucine da Incubo.
Una seconda stagione attesissima, una promozione pubblicitaria serrata in rete, sulla carta stampata, sul piccolo schermo. Sappiamo che gli chef da qualche tempo sono delle star, ma Cannavacciuolo di questi tempi pare emanare una luce più radiosa. Forse perché i giudici di MasterChef si sono messi una maschera che per colpa – o merito – della satira (le imitazioni dei giudici sono uno dei cavalli di battaglia di Crozza, lo sappiamo tutti) faticano a togliere, anche quando sarebbe meglio essere più genuini e meno “a favore di camera”. O forse perché il fascino rude dell’omone partenopeo che ricorda un po’ la fisicità di Orson Welles (e non quella di Bud Spencer, per carità! come si è letto sull’ultimo Vanity Fair nell’intervista a lui dedicata) e un po’quella di James Gandolfini, piace alle donne e agli uomini e perfino ai bambini, che se la ridono ogni volta che con una manata sulla spalla quasi manda a terra un qualsiasi personaggio di puntata che al suo fianco sembra un criceto. Tant’è che l’appuntamento con lo scripted reality, che entra nei ristoranti più disastrati della penisola e li risolleva dalla decadenza, è diventato qualcosa da non perdere nonostante l’evidente staticità del copione ereditata in buona parte dall’originale Kitchen Nightmares. Il format ha debuttato in Inghilterra nel 2004 sul canale Channel 4 e poi, grazie al successo ottenuto per merito quasi esclusivo di Gordon Ramsay, il più cattivo dei cuochi stellati, è stato comprato nel 2007 da Fox e portato negli Stati Uniti.
A differenza del docu reality (che appartiene maggiormente al format UK) dove in generale, grazie a maggiori disponibilità di tempo e risorse, si attende che le cose accadano e poi si lavora al montaggio con grandi margini lasciati agli imprevisti, nello scripted reality invece le scene vengono costruite, anche se non “finite”, proprio come in una fiction dove il fulcro del racconto è basato prevalentemente sui conflitti fra i personaggi e sulla loro risoluzione. Come racconta una delle autrici di Cucine da Incubo Annalisa Giaccari in un saggio nell’interessante volume curato da Veronica Innocenti e Marta Perrotta Factual, reality, makeover (Bulzoni, 2013) in “ogni puntata uno staff viene messo nelle condizioni di affrontare un conflitto fino alla risoluzione finale in cui lo chef/eroe propone un cambiamento radicale per tutti: fisico (del ristorante e del menù) ed emozionale. La divisione in tre blocchi ricalca la scrittura in tre atti della fiction: dopo la presentazione del ristorante, l’assaggio dei piatti e l’osservazione del servizio da parte dello chef Cannavacciuolo, nel secondo blocco si assiste a uno scontro fra i protagonisti della storia e alla fine nel terzo alla sua risoluzione attraverso il cambiamento radicale (makeover del locale e del menù)”.
Il format è semplice e rassicurante, ripetitivo al massimo, ma appagante e si fa perdonare alcune ingenuità sia di messa in scena dei conflitti che del cuoco, talvolta sopra le righe. Ma a Cannavacciuolo si perdona tutto appena prende in mano una pentola e qualche ingrediente facendoci credere che costruire un piatto magnifico sia alla portata di chiunque.
Addios! Come dice Cannavacciuolo. No, scherzo, arrivederci a fra qualche mese con altri editoriali.