Raccontare sguardi e storie attraverso fotogrammi in movimento. Questo è ciò che fa il cinema. E spesso a rimanere impressi nella memoria dopo l’immersione bulimica in un festival sono proprio una serie di frames, nitidi e lucidissimi oppure sbiaditi e destinati all’oblio.
Anche della 67a edizione del Festival di Cannes restano alcune immagini, che valgono un intero film o contribuiscono a farlo dimenticare in pochi attimi. Si scordano rapidamente le espressioni insofferenti della principessa triste in Grace di Monaco (Olivier Dahan), in apertura del festival. È troppo ingombrante l’effigie divistica (contemporanea) di Nicole Kidman per confrontarsi con quella (passata) altrettanto grande di Grace Kelly. Nonostante la Palma d’Oro, sono pochi i fotogrammi memorabili di Winter Sleep (Nuri Bilge Ceylan); le parole saturano le immagini, sovrastandole. Il dialogo, il racconto, pesa pericolosamente più di qualsiasi figura da ricordare. Impossibile, al contrario, cancellare il fuoco che irrompe nelle architetture precise di Maps to the Stars (David Cronenberg), ripulendo e purificando i fantasmi hollywoodiani rintanati in una “nuova carne” tutta interiore, prossima all’estinzione per autocombustione. Quando i valori compositivi diventano etica dell’immagine cinematografica, i frames si fanno indelebili: così accade per i tableaux vivants del film biografico Amour Fou (Jessica Hausner), dove i pochi punti mobili dell’inquadratura aprono varchi percettivi, in interazione con la durata e con il tempo che scivola ineluttabile verso la fine dei giorni di Von Kleist. Il vuoto e l’equilibrio lì sono una dottrina, mentre nel film di Mike Leigh è il pieno a dominare e a tratteggiare la vita di Mr. Turner. Entrando e uscendo dalla vita dell’artista, si entra ed esce continuamente da inquadrature materiche, quadri cinematografici dove la forma perde i propri confini come accade nella pittura di Turner. Indelebile è anche il gesto di Viggo Mortensen in Jauja (Lisandro Alonso), intento a scrutare con un cannocchiale i territori inospitali della Patagonia alla ricerca di una terra dell’abbondanza, ai limiti di una zona già stata tarkovskiana: l’astrazione del paesaggio e dei personaggi sono alle basi del rigore di un film in cui l’ambiente ingloba l’umano, assimilandolo. Le meraviglie (Alice Rohrwacher) traccia un’indagine delicata sull’adolescenza, sintetizzabile nel primo piano di Gelsomina, signorina delle api, con gli insetti nascosti per gioco imprudentemente in bocca. Anche per Xavier Dolan, rivelazione della competizione con Mommy, l’adolescenza del protagonista Steve è problematica ma vitale. Il giovane canadese (classe 1989), lavora in maniera intelligente sul linguaggio cinematografico e intrappola i personaggi entro inquadrature ristrette, senz’aria, in formato 1:1, lavorando sulla definizione cromatica di ogni dettaglio. Ecco allora riemergere il fotogramma che vale forse l’intero festival: Steve che posa la mano sulla bocca della madre e bacia allo stesso tempo la propria mano, con avidità. Composizione e narrazione s’incontrano in un frame in grado di raccontare e di illustrare un immaginario contemporaneo e autoriale.