Niente è più deperibile dell’evento sportivo. Tanto ossessiva e martellante si rivela la grancassa mediatica durante la competizione, quanto poi ci si dimentica di tutto appena finito l’appuntamento. Nel caso dei mondiali di calcio, non fosse per la panchina italiana ancora scoperta, sta succedendo la stessa cosa. E si ripiomba nel calcio mercato.
Eppure, un piccolo bilancio, specie su una testata come questa – dove occuparsi delle immagini in movimento nel senso più lato è naturale – andrebbe tratto. Ci proviamo.
Ovviamente non importa analizzare calcisticamente la questione (se interessa: al sottoscritto sono parsi ottimi mondiali per motivi tecnico-tattici, e per il livellamento generale della squadre, capace di rendere incerte molte partite). Piuttosto, parlerei ancora una volta di linguaggio televisivo, che – come ho scritto su altre testate – molto spesso (pur nella sua apparente standardizzazione) anticipa innovazioni tecnico-stilistiche in seguito ereditate da cinema e serialità.
In Brasile non si è visto gran che di originale: non erano nuovi né lo slow-motion dei replay, né i primissimi piani dei calciatori, né le fly-cam sopra il campo e dietro la porta, né i numerosi punti di ripresa. No, quello che è saltato agli occhi, talvolta con una certa irritazione da parte del calciofilo, è stato il protagonismo attribuito al pubblico da parte dalle regie. Tifosi in festa, tifosi in lacrime (specie dopo l’1-7 del Brasile, un vero mélo), tifosi addormentati, tifosi agghindati, tifosi fashion, tifosi cosplay, tifosi under e tifosi over, mai – dico mai – tifosi ultrà. Al di là della soddisfazione di veder tornare emozioni e sentimenti non violenti sugli spalti (e chi ha ridicolizzato le lacrime dei supporter come troppo enfatiche, ricordi che in Italia abbiamo appena sepolto un tifoso preso a colpi di revolver per una Coppa Italia), questa “narrativizzazione” drammatica ci pare suggestiva.
Lo sport ha da tempo immemore intrapreso la strada della narrazione, sia ex-post (basti pensare alla bella trasmissione di Federico Buffa su Sky, dedicata al racconto teatrale dei mondiali passati) sia durante la partita stessa, dove epica e poema eroicomico sono il contesto del “grande racconto sportivo”. Quel che si aggiunge in epoca post-mediale è una forte estetizzazione del gesto, attraverso l’enfasi del rallentato e dell’HD, nonché una probabile apertura, sempre più intensa, alle gradazioni emotive degli spettatori “live”, mutuata da altri sport, come il tennis, uno di quelli che – con i tanti tempi morti che possiede – permette numerosi stacchi sul pubblico.
Certo, c’è bisogno di qualcosa da raccontare. E se la favola del Costa Rica o l’impresa sfiorata del Cile suggeriscono cultura esotica, patriottismo da piccole nazioni, splendide carnevalate sugli spalti nella cornice del clima estivo, riesce più difficile immaginare una “narrazione” di questo tipo per un Chievo-Sampdoria di fine gennaio. Ma a noi interessa poco, perché intanto, dentro lo sport, c’è sempre più cinema, e – forse – viceversa.