Ci siamo davvero liberati del politically correct? Si pensava che, dopo il democratismo clintoniano e gli anni Novanta (di recente ristudiati anche da mostre e libri, che li hanno confermati come decennio chiave della contemporaneità), gli anni Duemila avessero fatto trionfare il realismo sull’eufemismo.
In uno strano impasto di ideologia fantascientifica – pensiamo ai comunisti reinventati da Berlusconi o alle armi di distruzione di massa ideate da Bush e Blair – e di real politik, la correttezza politica si è in effetti al tempo stesso sgretolata e riconfigurata. Per noi italiani, Renzi è il simbolo della scorrettezza politica, perché attacca a parole tutti i santuari retorici pre-esistenti, dai sindacati alla tradizione berlingueriana della sinistra. Con Obama, in America, invece si è ritrovata una via alla correttezza politica, misurata sul fatto che essa era nata anche per tutelare le minoranze culturali ed etniche da facili stereotipi, e ora che un Presidente nero è salito alla Casa Bianca non si può certo pretendere che faccia battute sui gay o sugli ispanici, tutti anzi abbracciati nel mandato di tutela dei più deboli.
Dove andiamo a parare con questo preambolo? Domanda legittima. C’entra anche la critica cinematografica. L’ho pensato guardando Io sto con la sposa, ammirevole documentario di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry. Come noto, il film racconta il viaggio compiuto in quattro giorni da un gruppo di immigrati – travestiti da sposi e relativo corteo nuziale – da Milano fino in Svezia. Lo scopo è la richiesta di asilo politico, e la strategia un modo per aggirare le leggi del nostro Paese in termini di regolamentazione dei flussi migratori.
Ora, il film ovviamente scuote e non lascia indifferenti, specie chi ha una cultura di sinistra e una coscienza democratica. Inoltre, il progetto è stato finanziato con il crowdfunding, e nessuno può dire “beo” di fronte a questo atteggiamento autarchico. Si aggiunga che i registi hanno rischiato, e tuttora rischiano, sulla loro pelle, eventuali denunce e boicottaggi.
Dunque, il solo raccontare trama e genesi di Io sto con la sposa avrebbe esaurito le funzioni della critica. Chi mai si può mettere a trovare il pelo nell’uovo e stroncare una storia così commovente? Eppure il documentario è linguisticamente povero, rischia continuamente di cadere nel folklorico, è commentato in maniera elementare dalla colonna sonora. È disumano farlo notare? Come dovremmo valutarlo? Altrettanto sbagliata sarebbe una critica squisitamente formale che dimentica le condizioni materiali e il coraggio del progetto. Ma che cinema è questo? Anzi: è cinema? Lo dobbiamo vedere in sala solo perché viene distribuito ed è passato a Orizzonti a Venezia? O non sarebbe piuttosto un perfetto esempio di servizio pubblico controverso e originale, da programmare su RaiTre o su La 7 per vedere un po’ cosa succede in questo Paese dove il Ministro dell’interno fa di tutto per far sentire diversi i diversi?
Questo discorso, ovviamente, vale per tutti i film di nobili intenti di questo periodo, da La trattativa a La nostra terra, da Se chiudo gli occhi non sono più qui a La zuppa del demonio. Bisogna riparlarne e cercare di rimettere in gioco un discorso critico che scavalchi sia l’apprezzamento di circostanza sia il cinismo della scorrettezza fine a se stessa. Insomma, Io sto con la sposa non è certo una cagata pazzesca, ma bisogna poter dire che lo è, se lo si pensa.