Di fronte a un avvenimento così totalizzante come la strage di Charlie Hebdo, la rassegna stampa diventa impossibile. Lo zeitgeist, lo spirito del tempo, è qualcosa di impalpabile perché sperduto nelle infinite nicchie di pensiero individuali che rappresentano solo se stesse.
La realtà esplode nella rete globale e implode nelle nostre teste, grazie all’informazione che ci raggiunge alla velocità della luce. Prendere in esame una pagina del web è come tentare di afferrare un’onda nell’oceano. Ha ancora senso considerare dei campioni per capire in che direzione si muove la rete? È davvero utile “commentare i commenti” per analizzare la verità condivisa da un certo gruppo di attori sociali? Forse sì, a patto di comprendere che chi “posta” sul web non lo fa mai in maniera ingenua. I commenti, anche quelli che troviamo sotto un post di Salvini o di Beppe Grillo, non sono l’elettroencefalogramma della persona che li ha scritti. Essi sono sempre e comunque una rappresentazione consapevole di sè, informazioni dosate per lasciare una traccia nel web, sulla quale figurano un nome e un cognome, poco importa se fittizi. Commentare su un social network significa prima di tutto parlare di sé, poi del fatto di cronaca in esame. D’altronde si sa che la comunicazione è influenzata dai suoi canali di propagazione, se il mezzo è “social” l’urgenza primaria non potrà che essere l’auto promozione dell’utente. Ebbene, che cosa dice di sé il web 2.0 in una circostanza tragica come quella occorsa a Parigi il 7 gennaio? C’è una particella del discorso che sembra essere sottesa in quasi ogni intervento, anche in quelli più banali, qualunquisti, sgrammaticati. Si tratta di un urgente, pasoliniano, “Io so”. “Io so che l’Islam è una religione violenta”. “Io so che la situazione in Medio Oriente è esasperata dagli interventi degli eserciti occidentali”. “Io so che l’attacco a Charlie Hebdo è tutta una messinscena”. “Io so che i terroristi sono cattivi MA gli occidentali sono peggio”. Alla radice di ogni enunciato si nasconde il bisogno di acclarare la nostra conoscenza dei meccanismi occulti della società e ribadire nel frattempo il nostro disincanto esistenziale. La funzione identitaria di gruppo è sostituita da quella rappresentativa di se stessi, bisogna mostrarsi scettici e ci sono numerosi modi per farlo, ma sono tutti sintomatici di un’atomizzazione della società ormai avvenuta. L’individuo è interconnesso ma inguaribilmente solo. Temiamo a tal punto il paradigma orwelliano che rifuggiamo ogni sentimento di comunione, ci puzza di omologazione intellettuale. Insomma, proprio quando dovremmo stringerci insieme, siamo più lontani che mai e servono a poco le marce pubbliche se siamo già irrimediabilmente divisi nella psiche.