Nel 1862 un’infermiera inglese parte per l’Irlanda per osservare e verificare uno strano caso: quello di una ragazzina adolescente che non mangia da quattro mesi e dice di nutrirsi solo con la manna santa che cade dal cielo. È depositaria di un miracolo?
Il film del regista Sebastian Lelio parte da una matrice letteraria, il romanzo The Wonder di Emma Donaghue, e ne riporta il testo con fare calligrafico: scarnifica la messa in scena e restituisce un’opera rigorosa e perturbante, che non si concede nessun fronzolo ma con lucidità rappresenta un racconto sulla fede come se fosse narrazione gotica.
Perché Il prodigio ha le sembianze, il tono, l’alito gelido di una storia dell’orrore, mentre con una prospettiva fantasmatica individua le caratteristiche della letteratura britannica più conosciuta e si costruisce secondo le dinamiche del genere. Gestendo con facilità il connubio religione/paura assimilandolo a quello della fede con l’inquietudine, raccontando con estrema lucidità i limiti e i confini della credenza religiosa, di come può essere un’arma o una ferita dilaniante. Lelio usa la macchina da presa intessendo un ritmo lento che non è mai meditativo, ma sempre perturbante, seguendo l’andamento inesorabile e sinuoso delle sabbie mobili, affondando in maniera inevitabile nelle pieghe di un racconto inquieto e inquietante. In questo modo, evita con intelligenza le facili trappole di una ricognizione sulla dualità tra Chiesa e Scienza, scendendo invece nelle profondità dell’indagine psicologica: e lo fa anche e forse soprattutto grazie alla fredda, entomologica sontuosità emotiva di un’attrice enorme come Florence Pugh, che replica l’intensità del suo Lady Macbeth e si trasforma in una dark lady traslitterata, perfettamente allineata con i toni chiaroscuri della fotografia che dipinge un’Irlanda pulsante nella desolazione del suo fascino primitivo e arcaico. Lelio, da parte sua, incornicia l’oggetto dello studio con riprese che si fanno grammatica: lente zoomate a camera fissa, come metafora di una lente d’ingrandimento che ingrandisce gradualmente quello che osserva, e nello stesso tempo di un’atmosfera claustrofobica e opprimente – tutto sottolineato da una colonna sonora che evita la melodia per insinuarsi nelle pieghe dei personaggi con le sue dissonanze stridenti e fumose.
Lo stile sembra debitore dei dipinti, dei cromatismi, dei visi deformati da emozioni che provocano spavento. Intanto, l’impalcatura drammaturgica scansa ogni scorciatoia e si fa via via più complessa riuscendo a mantenere la narrazione lineare, rendendo il mistero (della Fede) ancora più complesso e denso: perché le emozioni che alla fine impregnano gli umori e il mood de Il prodigio sono disperazione, incertezza, ostinazione, credenze, che animano le pedine di un gioco di scacchi che si tramuta in gioco di specchi. Figure spettrali, evanescenti, che entrano ed escono dalle ombre per perdersi nella nebbia della brughiera, che cambiano e si scambiano di ruolo come in un taumatropio (il gioco risalente all’epoca vittoriana, che appare anche nel film, dove un dischetto con due immagini sui suoi due lati viene ruotato velocemente fino a dare l’impressione di una sola figura, grazie alla persistenza della visione sulla retina).
In questo senso, l’inizio e la fine de Il prodigio sono rivelatori mentre assumono le valenze delle due facce dello stesso dischetto: Lelio mette in chiaro, con la voce off (“questa è una storia di finzione”) che l’unico interprete delle storie è chi le osserva, i soli che possono capire se ciò che viene narrato è una farsa o la realtà sono i suoi interpreti. E alla fine, l’unico giudice che delibera sulla veridicità delle immagini siamo solo noi.