Athena, come non impariamo niente dalle tragedie
Credo fosse stato Jeffrey Dahmer in tribunale a dire che aveva deciso di dare inizio all’Apocalisse.
È la stessa cosa che ho pensato vedendo Athena di Romain Gavras, in concorso alla 79a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: una apocalisse personale che non può altro che condurre, per quanto cantato, a uno straziante epilogo.
Athena sembra arrivare fuori tempo massimo, ma è impossibile, è come definire il mito di Orfeo ed Euridice demodé, o l’Anello dei Nibelunghi una narrazione stanca. Athena come tragedia greca, perché questo è, abbraccia trasversalmente ogni epoca e ogni generazione.
Ricordo che dopo la tragedia del Bataclan alcune persone espressero, se non solidarietà, un certo livello di comprensione per quegli atti di terrorismo. Diciamolo, i francesi sono quelli che facevano togliere le scarpe alle guardie per prelevare dalla cella il condannato a morte. Le colonie penali in cui stava Jean Genet erano così terribili, che i ragazzini preferivano suicidarsi ingoiando vetro piuttosto che perpetrare l’orrore di quella quotidianità. La situazione nelle banlieue e il comportamento della polizia francese (e non solo) non sono cambiati da L’odio (1995) a I miserabili (2019) e sottolineano come ogni elemento della cultura sociale e politica francese è un perfetto sfondo per una probabile e terribile guerriglia urbana.
Athena è molto semplice nelle sue premesse: un ragazzino di tredici anni viene massacrato da tre poliziotti, il filmato diventa virale e i fratelli chiedono giustizia, ognuno con la sua bussola morale. Sullo stile di László Nemes, col piglio del padre (Costa) Gavras viaggia senza sosta tra Call of Duty e il mirabile piano sequenza di Who Goes There (quarto episodio della prima stagione di True Detective) ci porta nell’inferno a cielo aperto dello scontro tra Athena (quartiere parigino) e il potere oscuro, kafkiano perché sempre invisibile, di una società allo sbando eppure granitica e inviolabile.
Sono quattro i veri protagonisti: Abdel (Dali Benssalah), un militare che chiede giustizia per il fratello morto secondo le regole di una “società civile”; Karim (Sami Slimane), colui che dà il via alla vendetta avendo perso fiducia e speranza nelle istituzioni; Moktar (Ouassini Embarek) fratellastro di Karim, Abdel, Sébastien (Alexis Manenti) e del tredicenne massacrato, spacciatore totalmente indifferente alla tragedia famigliare; Jérome (Anthony Bajon), poliziotto, padre di famiglia che viene travolto dagli eventi e da un lavoro in cui non riesce a identificarsi.
Athena inizia subito con una esplosione, non c’è spazio per le parole, ma solo per la rabbia e il dubbio di intere generazioni dimenticate, perdute. Se Abdel riesce a integrarsi con una società razzista tradendo sé stesso, Karim la vuole radere al suolo costringendo il suo quartiere, Athena, a diventare l’ultima roccaforte di diritti civili continuamente calpestati. Sono quattro persone distrutte, totalmente diverse, che vivono una perenne dicotomia dell’anima, morendo dissanguate mentre come corpi celesti, vagano continuamente portando avanti le loro convinzioni, in una lacerazione emotiva nel sentirsi perennemente stranieri nel proprio paese.
Scritto insieme a Ladj Li, che aveva diretto I miserabili, Athena ha un presentimento di un infinito tragico, di un j’accuse verso una società che nonostante i numerosi attentati decide di rimane indifferente all’Altro. Sono stati davvero i poliziotti a uccidere quel ragazzino o gli estremisti di destra per innescare la miccia di una guerra civile già iniziata? Chi sono i colpevoli e chi è colpevole di cosa? È così importante saperlo? Da Jerome che fa un mestiere che evidentemente non gli appartiene ad Abdel che vuole integrarsi a ogni costo, i quattro antieroi tragici sono degli scarti, degli errori del sistema, e gli errori vanno cancellati, anche se questo significa immolarsi per quella “gloria dell’Europa che giace estinta per sempre”.