Internet ed i social network disegnano spazi virtuali nei quali si trascorre (gran) parte della nostra esistenza, in un continuo dialogo tra effimero e reale. Tra le tante recenti opere cinematografiche dedicate, in senso ampio, all’informatica presente, passata (uno per tutti, The Imitation Game) e futuribile, riesce a spiccare per originalità di approccio Michael Mann, che nella sua ultima opera, Blackhat, riesce ad allestire una dimensione filmica-simbolica che fedelmente sintetizza il sincretismo spaziale della realtà e della quotidianità sociale dei nostri tempi.
L’obiettivo di Mann fonde l’iperrealismo alla fisicità eterea dell’informatica, presenza attiva nella società moderna, in un’osmosi costante, decodificando il virtuale attraverso il reale. “Luoghi e nonluoghi si incastrano, si compenetrano reciprocamente, la possibilità del nonluogo non è mai assente da un qualsiasi luogo” (Marc Augè, Nonluoghi, Introduzione a una antropologia della surmodernità). Connessioni, microchips e social-network assumono forma in Blackhat attraverso la costruzione di nuovi spazi e di nuovi tempi, i non luoghi e le realtà virtuali si vestono di forme reali e danno vita ad un continuum inestricabile tra realismo estremo e pura immaginazione. I Luoghi ed i Non Luoghi si alternano e si confondono; gli scenari urbani si muovono sullo stesso piano degli ambienti virtuali, si fondono in un unicum, un corpo in movimento che si specchia nel suo riflesso, per poi riunirsi in uno stesso organo, vivo e pulsante.
La zona portuale che ospita il classico conflitto a fuoco tra buoni e cattivi ricorda gli spazi videoludici dell’Avalon di Oshii Mamoru, mentre le architetture informatiche si fanno reali, quasi come nel Tron di Steven Lisberger. I microcircuiti sono simili ad autostrade ed edifici urbani, o ad organici collegamenti sinaptici, mentre le strutture in cemento e acciaio, che offrono riparo durante la sparatoria, sembrano banchi di memoria e microchips. I paesaggi metropolitani sono modellati dall’occhio della mdp come impianti scenici ed architetture da videogioco, in cui anche il cielo e il mare diventano veri e propri corpi attoriali e come tali parti attive della scena filmica, e la marea umana del finale si confonde con le onde di luce dei dati che viaggiano nella Rete.
Le immagini stregano l’occhio dello spettatore in una fascinazione estetica sospesa tra reale e virtuale. Il deragliamento dello sguardo, confuso in questa continua trasposizione tra concreto ed immaginario, è accentuato dalla continua alternanza tra dilatazioni e contrazioni del tempo, accelerato o quasi annullato durante gli spostamenti fisici da un luogo all’altro, Chicago, Hong Kong o Jakarta, o seguendo il flusso delle informazioni digitali, e sapientemente rallentato, per assaporare la gravità delle emozioni e dei movimenti dell’animo umano.
Mann scava nella physis della virtualità, riconducendo ogni cosa all’immagine che si alimenta del quotidiano, creando spazi e plasmando il tempo.
Il virtuale assume una sua specifica corporalità, è un corpo a sé, la tastiera illuminata è un organo vitale che riceve i suoi input attraverso il catartico tasto “enter”, che scandisce i ritmi della nostra vita, giorno dopo giorno.
Master Control Program: Who programmed you?
CLU: I was simply…! [Clu is thrown into the air, lands on a derezzing device and screams in pain] (Tron, Steven Lisberger, 1982)