Umanesimo
L’ultimo film di Michael Mann, Blackhat, non è forse il capolavoro assoluto gridato dai più accaniti sostenitori, né è il capolavoro di Michael Mann, ma ancor meno è “solo” un onesto e convenzionale film di genere, come è stato etichettato dai più freddi e dai meno entusiasti.
Mann anzi ancora una volta inserisce nello scheletro del “genere” (in questo caso l’action movie miscelato al thriller cybernetico) una forte componente umanista, confermando di essere un autore estremamente interessato a rappresentare – anche con una vena pietosa e sentimentale solo all’apparenza fredda e distaccata e in realtà implacabile – il destino e la solitudine dei protagonisti al cospetto del contesto, delle responsabilità e delle proprie scelte passate. Mann dirige tragedie condite da sparatorie, inseguimenti e pallottole, rappresentate seguendo tutti i crismi della spettacolarità, e con Blackhat si conferma uno dei registi statunitensi in attività più attenti e interessati alle interiorità e alle derive dei suoi protagonisti; elemento questo dell’interdipendenza tra spettacolarità e umanesimo che lo avvicina alle poetiche fondamentali di molta New Hollywood. Non inganni quindi, anche in quest’ultima fatica, la freddezza apparente del digitale e la gelida attenzione agli ambienti e ai paesaggi. Tutto è strumentale al racconto di un uomo in lotta sempre più disperata e inevitabilmente vittima in perenne fuga e inseguimento: l’hacker Nicholas Hathaway, tirato fuori dalla prigione in cui era rinchiuso per combattere, insieme al suo vecchio amico detective Chen, un doppio attacco informatico lanciato a Cina e Stati Uniti da misteriosi e apparenti cyberterroristi. Fondamentale, per le sue scelte, diventerà anche il repentino innamoramento nei confronti della sorella dell’amico, altro elemento che, inevitabilmente, determinerà scelte e destino. Le gabbie che simboleggiano la condizione del protagonista e degli altri personaggi sono proprio le convenzioni e le regole del genere, che sembrano – anche qui, come spesso è accaduto in Mann – svolgere il ruolo del fato incorruttibile, o del severo deus ex machina. Non è una semplice e ovvia fedeltà a canoni e stilemi; lo si vede da significative scelte stilistiche, come gli improvvisi e ricorrenti rallentamenti in momenti di adrenalina pura, oppure dai continui giochi di sguardi fatti da finte soggettive e soggettive reali (come fatto notare da Bocchi su Cineforum), così come dall’insistenza su elementi freddi e all’apparenza collaterali dell’ambiente. Tutto coincide nel mettere al centro il protagonista inteso come vero uomo piuttosto che come semplice eroe del thriller; in maniera sì spettacolare, ma anche meditata, partecipata e sofferta. Da vero umanista.
Blackhat [Id., USA 2015] REGIA Michael Mann.
CAST Chris Hemsworth, Tang Wei, Leehom Wang, Holt McCallany, Viola Davis.
SCENEGGIATURA Morgan D.Foel, Michael Mann. FOTOGRAFIA Stuart Dryburgh. MUSICHE Atticus Ross, Harry Gregson Williams.
Thriller/Azione/Drammatico, durata 133 minuti.