Inglorius Freaks
Freaks Out diverrà sicuramente uno spartiacque per l’industria cinematografica italiana e, nel bene o nel male, un punto di riferimento per lo sforzo produttivo sostenuto. Pochi sono i casi in cui una pellicola nostrana si sia imposta l’obiettivo di essere a tutti gli effetti un blockbuster che guarda al mercato estero.
I freaks di Mainetti sono un gruppo di poveri circensi con poteri unici. Il tono con cui ci vengono presentati ha il dolce stupore felliniano. Si pensi al clown Mario, un nano in grado di attirare metalli, o all’uomo bestia Fulvio, che ha la brutalità poetica del Zampanó de La strada.
Questo lirismo assume spesso tratti epici e una sospensione poetica in cui vivono personaggi come la giovane Matilde, un’adolescente elettrificata su tutto il corpo, o l’imprevedibile Cencio, giovane albino con la capacità di controllare gli insetti. Il gruppo è capitanato dall’onesto impresario ebreo Israel, una sorta di Professor X squattrinato per questi X-men disgraziati ritrovatisi nella Roma occupata dai nazisti.
Freaks Out è una pellicola dallo stile sospeso tra questo lirismo epico e un’impostazione da colossal hollywoodiano: un po’ Monicelli, un po’ Sergio Leone, un po’ Tornatore, ma anche Tarantino e de la Iglesias. La sintesi tra due idee di cinema è dichiarata. Il periodo storico in cui è ambientata si presta bene a una semplificazione dei ruoli (con i nazisti come cattivi perfetti) e fornisce a Mainetti l’occasione di inserire nuovamente personaggi fantastici dentro un contesto reale, come aveva fatto con la triste monotonia cittadina di Lo chiamavano Jeeg Robot.
La sensazione, data dalla moltitudine di citazioni, è quella di voler trovare una sintesi linguistica tra blockbuster americano e cinema nostrano, ma il risultato sembra una forzatura stilistica continua. Il limite di Freaks Out non sta tanto nella sua idea di base, funzionale ad aprirsi a un mercato estero e appetibile trasversalmente, ma sull’insistenza con cui cerca questa commistione di stili. Un aspetto che non inficia del tutto il piacere di una narrazione semplice ma efficace, ma forse quello della spontaneità che crea nello spettatore uno stupore un po’ artificiale.