Gambe, agnelli e molte idee
La vecchia e spesso valida definizione hitchcockiana di cinema diceva che esso è la vita meno le parti noiose, ma ciascuno si annoia per cose differenti. Gli uomini e le donne di Mektoub, My Love: Canto Uno sembrano non annoiarsi mai, vivono la loro estate ballando, passando da un locale all’altro, prendendo il sole in spiaggia e tuffandosi ogni giorno in una nuova eccitante esperienza.
Ogni qualvolta si è tentati dalla stasi, dall’assopirsi nella calda luce del mattino – vedi il protagonista, Amin, che resta con le finestre chiuse steso sul letto a vedere un film muto, Arsenale di Dovzenko – si viene richiamati all’ordine, dove l’ordine è il divertimento, la luce, l’aria aperta, gli amici, le ragazze, tra cui scivolare, senza battute d’arresto, senza possibilità o capacità di riflessione. Eppure quest’esperienza totale, tradotta pedissequamente da Kechiche in forma cinematografica in una tavolozza di luci, corpi e suoni, grande tre ore, annoia molti, che in sala si chiedono cosa stiano guardando e cosa stia davvero accadendo, si chiedono com’è finito il film e perché dare tanto spazio a sequenze apparentemente ripetitive o superflue. Basterebbero questi dubbi a giudicare (positivamente!) il film, perché se un’opera fa chiedere di sé cosa sia e attraverso di sé cosa sia il cinema, cosa sia l’arte, allora sotto gli occhi e nelle orecchie non abbiamo un prodotto per gusti inscatolati, ma il frutto della libertà e del pensiero sostanziale. Per questa frattura il film è potente, utile, bello.
Amin ha lasciato gli studi di medicina per dare il giusto spazio alle sue passioni: scrive sceneggiature e fa molte fotografie. Per l’estate, in pausa dal lavoro da cameriere a Parigi, torna dalla sua famiglia nel sud della Francia. Qui sorprende la sua amica d’infanzia Ophelie, fidanzata con Clement, a letto col suo amico Toni e, vedendola sotto una nuova luce, ne viene attratto entrando sempre più in un discreto conflitto con sé stesso e con l’ambiente in cui è cresciuto. La sua estraneità ne fa un osservatore privilegiato, sembra l’unico che sa guardare da fuori ciò che accade comprendendo ogni cosa. In sé incarna lo spettatore ideale e l’occhio del regista – sono cose distinte? – e con l’obiettivo della sua macchina fotografica dice di riuscire a catturare il movimento lì dove c’è la vita e viceversa: è attraverso il suo iniziale voyeurismo che il film ha un movente e grazie alla pazienza con cui riesce a fotografare la nascita di due agnelli, abbiamo un simbolo di purezza, sincerità, moderazione che diventa imponente se montato prima di una serata in discoteca sfrenata e sensuale quanto mai. Tra decine di nomi, figure e presentazioni con strette di mano, il vero incontro di Amin è quello con l’unica altra “esclusa” dal divertimento, Charlotte, sedotta anche lei da Toni e abbandonata. Nei loro occhi c’è il fuoco di chi ha visto il caos ed ha scelto l’individualità, l’ordine, la personalità, in loro c’è il cinema di Kechiche che ha scelto le durate lunghe, l’indugio, l’esplicitezza, i corpi-paesaggio, il non ignorare mai che la noia non esiste per chi non si aspetta null’altro che la vita per quello che è.
Mektoub, My Love: Canto Uno [Mektoub is Mektoub, Francia 2017] REGIA Abdellatif Kechiche.
CAST Shain Boumedine, Ophélie Baufle, Salim Kechiouche, Lou Luttiau, Alexia Chardard.
SCENEGGIATURA Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix. FOTOGRAFIA Marco Graziaplena.
Drammatico, durata 175 minuti.