Discesa all’inferno
Giuliano Montaldo conferma la sua fama di regista impegnato e schierato con la sua ultima fatica, L’industriale, che racconta di un imprenditore torinese (interpretato da Pierfrancesco Favino) sull’orlo del fallimento, e della sua discesa verso gli inferi professionali e privati; alla fine il protagonista è costretto a fare i conti con istinti e paure che gli fanno tirare fuori il peggio di sé, fino ad un primo piano finale che dimostra la consapevolezza di quello che è stato costretto a diventare.
L’urgenza etica, civile e politica che ha spinto il regista a lanciare il suo grido di dolore sui detriti lasciati dalla tempesta della crisi finanziaria è evidente, e questo di per sé è certamente un merito. Però, come si dice, di buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno: il film infatti soffre del fatto che manca un equilibrio tra le tesi sostenute e la struttura filmica e narrativa, con le prime troppo dominanti e solo qua e là ben amalgamate con le seconde. Il risultato è un’opera troppo declamatoria e dimostrativa, a scapito proprio dell’impatto politico che risulta così debole e poco efficace. Per fare un piccolo esempio, durante la scena nel ristorante giapponese il fatto che la finanziaria fosse considerata strozzinaggio legalizzato era già evidente senza ci fosse necessità di sottolinearlo a chiare lettere con un primo piano di Favino che sembra rivolgersi proprio alla cinepresa. I limiti traspaiono soprattutto nei dialoghi, ma anche nello schematismo con cui sono descritte situazioni e dipinti certi personaggi, soprattutto quelli secondari, e nella caduta in più di un’occasione nella trappola dello stereotipo. Alla fine per questi motivi la base etico/politica alla base dell’opera non riesce ad esprimersi adeguatamente, e il film assomiglia più ad un comizio urlato che ad un’adeguata riflessione sullo stato delle cose. Ciò non toglie che in certi momenti funzioni e abbia un suo impatto: L’industriale funziona laddove ci fa maggiormente partecipi delle angosce e della disperazione del protagonista, quando cioè rimane aderente al suo avvicinamento al baratro e alla perdita di certezze e sicurezze. Questi sono anche i momenti in cui anche il sotto testo politico, partendo dalla crisi privata e morale, risulta più incisivo.
Accompagna la vicenda una fotografia che esalta la fotogenia di una Torino fredda, e nebbiosa, algida e affascinante, il cui raffinato distacco accompagna il percorso del protagonista e sottolinea il contesto contro cui va a sbattere.
Un ultimo accenno va alla strana prova di Favino, che alterna momenti di intensità da grande attore ad altri in cui sembra dimenticarsi della sua bravura, in un’interpretazione altalenante proprio come il film.