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Solo per vendetta

lunedì 5 Settembre, 2011 | di Lisa Cecconi
Solo per vendetta
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Vite violate
Nicolas Cage, ovvero l’ubiquo. Sul proliferare smodato della sua faccia dolente si è ormai discusso fino allo sgomento e, con buona pace di colleghi e critica, non si prospettano battute d’arresto. Il suo visus campeggia inarrestabile, anzi acquista legittimità proprio in virtù del suo moltiplicarsi, di una coerenza che deriva dall’accumulo e dal ricorrere ostinato di ruoli similari.

Affranto e disilluso, duramente colpito negli affetti, stanco – e tuttavia non rassegnato – Cage incarna il volto plumbeo dell’Ecce Homo contemporaneo, quel misero nessuno che nella sua stessa finitezza vanta un residuo di dignità. Non fa eccezione il Will Gerard di Solo per vendetta, mite insegnante d’inglese, attirato da un sicario senza scrupoli (Guy Pearce) nelle maglie di un’oscura organizzazione, per vendicare la moglie (January Jones) aggredita e violentata. Nella New Orleans post Katrina l’insicurezza attanaglia gli individui, la violenza indiscriminata avvelena i rapporti e la normalità è un sogno colpevole che prelude ad un brusco risveglio. A partire da una sceneggiatura altrettanto precaria, Donaldson realizza un film non privo di meriti ma ben lontano dai trascorsi fasti (Il Bounty, La regola del sospetto, Indian – La grande sfida) con un cast in gran parte noto per le serie tv (January Jones, Jennifer Carpenter, Harold Perrinau Jr.) e una componente distopico-complottistica per certi versi in comune col precedente The Bank Job – La rapina perfetta (2008). Nonostante la fragilità di un impianto narrativo sconnesso, che sfiora il ridicolo in più di un’occasione, il film si avvale di una resa estetica tutt’altro che banale. Più del contributo delle sequenze d’azione, comunque riuscite, è il realismo crudo e dimesso degli esterni a ricordare la vocazione documentaria del regista, tra nude inferriate reticolari e nastri d’asfalto illuminati a giorno che restituiscono, al contempo, la percezione di un’esistenza in trappola. La città indistinta e tentacolare diventa allora l’emblema del degrado civile e umano, di una realtà perversa dove non esistono zone franche. Ogni tentativo di proteggere l’intimità è puntualmente frustrato, che sia il raccoglimento artistico delle lezioni e del concerto – interrotti dall’ingerenza di media e polizia – o lo spazio sacro della vita domestica, gelosamente difesa e brutalmente violata. Gli stessi mezzi di comunicazione riflettono la psicosi di una società schizofrenica, ossessionata dal controllo impossibile, dalla necessità di monitorare, registrare e intervenire in tempo reale su una complessità di eventi sempre più sfuggente. Parallelamente si sfalda ogni spiraglio di reale comunicazione: l’arte è strumentalizzata, le parole distorte, dalle citazioni estrapolate dalla letteratura alle infantili calamite a forma di lettera trasformate in messaggi di morte, fino ai dossier falsificati sui soggetti da eliminare. La deriva del linguaggio è dunque il sintomo di un più profondo collasso dei valori, compreso quello della giustizia, parcellizzata, aleatoria e schiacciata da una sovrastruttura che non è più a misura d’uomo.

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