Un dirty pleasure è una passione che se rivelata metterebbe in imbarazzo l’immagine di chi lo confessa. Ecco, potrebbe essere questo ciò che spinge qualcuno, dopo due film, ad andare a vedere l’opera terza di Donato Carrisi: perché già La ragazza nella nebbia e L’uomo nel labirinto erano due facce della stessa medaglia (a loro volta l’altro lato dello scrittore), complementari nel mostrare un regista che sa molto bene cosa raccontare e ha chiaro in mente come metterlo in scena, ma ha anche qualche difficoltà con il mezzo cinema.
Donato Carrisi come autore di best seller ha l’innegabile talento di tessere trame fittissime che pian piano si stringono lasciando senza fiato il lettore; con l’unico difetto di una scrittura che, a lungo andare, non riesce ad evitare alcuni luoghi comuni e tante banalità nello svelamento dei personaggi.
Inevitabilmente o meno, questa sua caratteristica si riflette nel mestiere da regista: perché se La ragazza nella nebbia mostrava solo l’incredibile capacità di costruire una trama e barricarla dentro un’atmosfera, dirigendo bene gli attori (addirittura Toni Servillo, Jean Reno, Michela Cescon e Alessio Boni), il film successivo puntava lo sguardo su scenari onirici claustrofobici ma scivolava copiosamente sul finale. Anzi, sulla spiegazione finale. Io sono l’abisso ingrandisce allora pregi e difetti dei due film precedenti. Certo che se tutto il film avesse retto la tensione emotiva della prima mezz’ora, sarebbe stato un capolavoro: asciutto, tesissimo, quasi radicale nella scelta di non lasciare appigli allo spettatore e procedere per ellissi continue, mettendo al centro L’Uomo Che Pulisce, stringendolo in primissimi piani d’angoscia e liberandolo nei campi lunghi. Servito oltretutto da Gabriel Montesi che mostra il nerbo di un magistero interpretativo potente, che si gioca il tutto per tutto in quello che potrebbe essere perfettamente il ruolo della vita, che gioca con il suo personaggio con intelligenza e senza fronzoli, senza paura, senza remore, senza ritegno. Michela Cescon, dal canto suo, fa il suo lavoro che fa bene anche quando guida con il pilota automatico: la Cacciatrice di Mosche, ruolo a fortissimo rischio banalità, è servita con diligenza e freddezza, con una mimesi fisica che ha dell’incredibile. Entrambi recitano seguendo le onde lievi e minacciose del lago di Garda, mai così centrale, mai così minaccioso, al centro di una metafora sull’acqua che apre il film in una sequenza realmente raggelante: Io sono l’abisso inizia con una piscina dal fondo sporco e oscuro, continua con un lago limaccioso per poi finire con una “pioggia anti incendio” risolutrice. Peccato che poi, con il procedere inevitabile della trama tutto sembri colare a picco, e l’abisso che si raggiunge è di tutt’altro tipo: il film diventa una sequenza di passaggi forzati e inevitabilmente didascalici, fino al parossismo di un epilogo che pur di chiudere tutto con un colpo di scena inaspettato inventa relazioni inutilmente iperboliche.
Ed ecco il problema fondamentale del film: l’inutilità. Tutta la storia è un procedere incessante di avvenimenti bigger than life ma sostanzialmente inutili. È in questa frattura che il Carrisi scrittore e quello regista si perdono: costruiscono edifici drammaturgici che si portano vertiginosamente in alto dal quale poi non sanno come scendere. E questa volta si sente più forte la delusione, perché gli attori sono formidabili, perché la storia ha quell’inquietudine strisciante e malinconica che affascina, perché il sottotesto ha una potenza etica non indifferente (salvo poi svilirlo con dialoghi risaputi e telefonati). Insomma, plot potenti e svolgimenti penitenti.