Una fotografia sfocata
Come in Control e nel suo raccontare la parabola esistenziale di Ian Curtis, leader dei Joy Division, anche in quest’ultima pellicola Anton Corbijn fa i conti col tema del divismo. Quello dai tratti distruttivi, troppo pesante da sopportare per anime irrimediabilmente fragili, rendendo così evidente tutto il suo interesse per la battaglia tra quell’umanità desiderata e rincorsa ed il suo essere ferocemente fagocitata dal successo.
Questa volta, a passare sotto la lente del regista e fotografo olandese, tocca al giovane ribelle James Dean e a quel nuovo modello di divo che cambierà la cultura e il costume dell’America di quegli anni. Corbijn vuole catturare la portata sociale della figura di Dean, il suo aver incarnato quei tempi che stavano cambiando, portando per sempre via un’eterna innocenza e una gioventù troppo presto bruciata sul sedile di una Porsche. A racchiudere tutto ciò e a costituire l’oggetto narrativo del film è l’incontro che l’attore fece con il fotografo della Magnum, Dennis Stock, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa. Nel 1955 a Los Angeles, Stock conosce Dean al party di Nicholas Ray e ne rimane presto folgorato, convinto di aver trovato il volto giusto per quel lavoro che potrà affermare il suo talento e consacrarlo finalmente come un vero artista. Affascinato da quello sguardo malinconico e dalle movenze flemmatiche e vanitose, propone quindi un servizio fotografico di Dean alla celebre rivista Life, credendo nel talento naturale intravisto in quell’attore tanto diverso dai suoi colleghi di Hollywood. Stock catturerà Dean in scatti che hanno fatto epoca, dai marciapiedi di Times Square alla fattoria di famiglia di Jimmy in Indiana, svelandone il lato più intimo e nascosto. Quell’amicizia nata durante il loro breve viaggio nell’altra America, quella provinciale, semplice e autentica, sarà interrotta però dal ritorno in quel mondo spietato e in quella società finta da cui Dean voleva fuggire, ma a cui Stock apparteneva e mai avrebbe rinunciato. Corbjin parte dunque da questo spaccato di vita reale, ricamandolo ed enfatizzandolo, cercando di catturare quell’attimo delicato ed invisibile in cui l’uomo diventa mito. Il momento in cui nasce la stella. Ma la stella di Life purtroppo non brilla e la pellicola non riesce a mantenere fede all’idea di partenza, tanto fascinosa quanto sfuggente e la fotografia di un’epoca risulta sfocata ed incapace a coglierne in profondità lo spirito. Anche la precisa ricostruzione storica e sociale, così come il sottile ed interessante autobiografismo messo in scena da Corbijn che riflette sulla voracità del fotografo nella sua ossessione di cogliere ed immortalare il momento giusto, non sono sufficienti a scrollarsi di dosso quella patina che rende il tutto eccessivamente artificioso. A ciò contribuiscono anche le interpretazioni dei due protagonisti, avvolte in un’innaturalezza di fondo che per nulla supportano le musiche ammalianti o le curate ambientazioni, riassumendo in definitiva nei loro personaggi la forzatura di un’opera che sembra apparire, come il ribelle che vuole raccontare, senza una causa.
Life [id., Canada/Germania/Australia 2015] REGIA Anton Corbjin.
CAST Dane DeHaan, Robert Pattinson, Joel Edgerton, Ben Kingsley, Alessandra Mastronardi.
SCENEGGIATURA Luke Davies. FOTOGRAFIA Charlotte Bruus Christensen. MUSICHE Owen Pallett.
Drammatico/Biografico, durata 111 minuti.