Coniglio per cena
Ereditare può significare possedere qualcosa che ci ricordi con affetto chi ci ha appena lasciati, oppure una fonte di guadagno inaspettata, oppure un’infinita lotta tra parenti che farebbero a pugni pur di racimolare qualche briciola.
Il protagonista de L’erede, Bruno, deve invece fronteggiare i reclami dei vicini di quella casa che rappresenta l’eredità lasciatagli dal padre, ambigua figura che sembrerebbe in debito con la famiglia di dirimpettai, composta da una vedova e i due figli. Deciso a ristrutturarla, Bruno si vede sempre più prigioniero di quella strana donna che si fa più insistente man mano che lui temporeggia nel decidere cosa fare dello stabile. Fondamentale in questo piccolo film indipendente la scelta del cast: il protagonista, dopo lo spietato criminale de Romanzo Criminale, si rivoluziona e diventa un impacciato padrone di casa, timoroso nel rapportarsi con la figura di spicco della storia, la vedova. Questa è caratterizzata da una doppia personalità molto evidente: inizialmente è tutta un complimento, svenevole ma viscida come una sanguisuga pronta ad attaccarsi e succhiare; quando poi Bruno si stabilisce nella casa, i capelli si sciolgono, la voce si fa stridula, le mani si rattrappiscono come degli artigli, e si trasforma in una strega maligna. Osserva, scruta e controlla con ingordigia, fino a diventare paranoica e costringere tutti sotto il suo volere di vecchia pazza. La vera padrona della scena però è la proprietà ereditata, contesa, desiderata, trattata come un personaggio. La macchina da presa la percorre, diventando gli occhi del protagonista o seguendolo mentre cerca di sviscerare i suoi intimi segreti e trovare la fonte dei rumori che la percorrono. È lei che rimane quando tutti se ne vanno, occhi vigili e custode della verità, insieme ai suoi fedeli guardiani, i teneri ma inquietanti conigli.
Dopo mesi di facili guadagni attraverso una serie di commedie più o meno riuscite, finalmente qualcuno decide di stimolare il pubblico italiano con un genere difficile e poco nostrano, confezionando un prodotto più impegnativo e degno di riconoscimento.