Il “miracolo” delle tre B: Goodbye cinema
Quattro donne, tre generazioni: una storia vera. Nella Bulgaria comunista legata ad una disciplina spietata e violenta si svolge il dramma di una famiglia che tra vendetta e rancore forgia i personaggi e consuma circa quarant’anni di storia.
Prendiamo tutto questo, proiettiamolo sul grande schermo, ne viene fuori Goodbye Mama film dell’artista (in)completa Michelle Bonev, regista, attrice, produttrice, sceneggiatrice del film. Si dovrebbe gridare al miracolo ma non lo si può fare: Bonev è solo una donna con bizzarri capricci megalomani (“ho altri 12 progetti nel cassetto e aspetto con fiducia la selezione di Hollywood”), amica di B(ondi) e B(erlusconi) e B(orisov), premier del suo paese. A Venezia la Bonev si aspettava il Leone d’oro – nonostante non fosse in concorso – ma è stata premiata solo con una targa “farlocca”, creata ad personam, “Action for woman”. Questo non sarebbe scandaloso se il film fosse una bella opera prima, presupposto di futuri pregevoli lavori; non è questo il caso, sembra più una brutta soap opera. La macchina da presa indugia sul corpo martoriato della nonna, rinchiusa in un gerontocomio, sulle scene di sesso tra Mama Bonev e i suoi amanti, sulla scrivania del ministro bulgaro su cui troneggia, “stranamente”, il nostro sorridente premier; è come se non ci fosse nulla da scandagliare, lasciando insondate tematiche che sono importanti e presenti nel film; è come se si restasse fermi al significante, senza avere gli strumenti per indagare il significato. Sballottati avanti e indietro in un nebuloso vortice temporale si ha la sensazione di totale disorientamento, di inconcludente pressappochismo, che va di pari passo con un’interpretazione che punta all’esteriorità e al superfluo. Questa cenerentola bulgara che lascia la terra matrigna e arriva in Italia, nazione (del popolo) della libertà, (in cui regna il partito) dell’amore, si fa portavoce della dicotomia (piaggeria dovuta) Bulgaria, austero gulag domestico/Italia, paese dei balocchi, terra promessa per chi fugge – non è moralismo ma le feste, gli abiti indossati dall’avvenente donna stridono pensando a ben altri migranti e situazioni che attraversano i nostri mari e telegiornali.