Sweet Home Alabama
Perfettamente allineato con il moderato progressismo “politically correct” del guerrafondaio premio Nobel per la pace Barack Obama e apparentemente realizzato in maniera davvero convenzionale, monocorde, poco coraggiosa a livello di regia da Ava DuVernay, quasi in funzione delle nomination agli Oscar, Selma non sarebbe da disprezzare, se solo non fosse un concentrato di retorica e cattivo gusto.
Se fosse necessario condividere l’ideologia di un cineasta per poterne apprezzare il lavoro, la storia del cinema sarebbe monopolio della critica contenutista. Ma così non è, per fortuna, e non bisogna sentirsi meno di sinistra se si sostiene che Selma è un brutto film. E se si pensa che questo film non abbia alcuna utilità nella lotta al razzismo. Proprio difficile immaginare un poliziotto statunitense, alla fine della giornata, dopo aver sparato a qualche afroamericano a caso, diventare all’istante paladino dei diritti dei neri, guardando Selma in dvd.
E come potrebbe mai, quando il film, che si prende davvero troppo sul serio senza averne il diritto, come Sorrentino nel Divo estetizza le violenze subite dalle vittime con ralenti disgustosi (le quattro bambine fatte saltare in aria da una bomba in chiesa, l’omicidio di Jimmy Lee Jackson nella tavola calda, il prete bianco di Boston picchiato dai razzisti), nel caso dei pestaggi durante la marcia accompagnati persino da un gospel in sottofondo! Le musiche, nel film, coprono sempre le immagini, che da sole non reggerebbero. Ci sono, poi, palesi inverosimiglianze, come quando, nella scena all’obitorio, il nonno di Jimmy Lee Jackson, Cager Lee, dopo essere stato colpito selvaggiamente alla testa, non presenta nemmeno un graffio. Quanto suona falso, didascalico e poco realistico, inoltre, il discorso di Coretta Scott King al marito Martin Luther, quello sulla “gelida nebbia di morte”, sorprendentemente aulico e introspettivo, in confronto al resto dei dialoghi, che contengono in prevalenza lunghi discorsi del predicatore, rappresentato come una sorta di Gesù Cristo monodimensionale, con l’unica pecca delle scappatelle sessuali. Il film cerca di raccontare tanto il Martin Luther King pubblico quanto quello privato, ma risulta poco efficace e superficiale in entrambi i casi. La scelta di soffermarsi solo sugli anni 1964 e 1965 e sull’organizzazione della marcia di Selma non paga (ben altri risultati aveva ottenuto Spielberg, con procedimento analogo, nel ritratto di Lincoln). Se è questo film banale sull’integrazione tra neri e bianchi che, rifiutando le influenze corroboranti del cinema di genere (tanto valeva sconfinare nell’horror o nel melò), disdegna la vitalità del cinema meticcio che amiamo, a rappresentare il cinema impegnato di sinistra, preferiamo il talento folle di Mel Gibson, il non-pacifista Eastwood, o i nostri tostissimi Vicari e Sollima.
Selma – La strada per la libertà [Selma, USA/Gran Bretagna] REGIA Ava DuVernay.
CAST David Oyelowo, Carmen Ejogo, Oprah Winfrey, Tom Wilkinson, Tim Roth, Martin Sheen.
SCENEGGIATURA Paul Webb. FOTOGRAFIA Bradford Young. MUSICHE Jason Moran.
Biografico, durata 128 minuti.