La politica dei sentimenti
Prima una donna che porta avanti una battaglia per esumare una fossa comune e ridare dignità ai tanti desaparecidos, tra cui il suo bisnonno, vittime di una strage fascista. Poi due donne senza uomini che partoriscono lo stesso giorno. Una più matura (Penélope Cruz), che in piena consapevolezza vuole crescere il figlio da sola, l’altra (Milena Smith) da poco maggiorenne, deve ancora trovare il suo posto nel mondo: le due si ritrovano ricoverate all’ospedale di Madrid e per solidarietà si sostengono.
La donna più grande aiuta quella piccola puntando, in particolare, sulla sua esperienza, su quello che sa, sulla propria memoria. Non è un dato secondario: perché la memoria, il patrimonio di conoscenza e il gesto di tramandarlo, è uno dei punti sotterranei ma centrali di Madres Paralelas: le madri sono parallele ma non uguali, appartenenti a due generazioni molto diverse, l’una impegnata e l’altra “ignorante”, anzi ignara, cresciuta nel deserto dell’oggi. Due donne che si guardano tra loro in uno specchio deformante, sino al momento del confronto.
Pedro Almodóvar sembra frequentare l’archetipo dello scambio nella culla. Ma solo in apparenza: per tutta la prima parte dispiega un fiammeggiante melò come uso dell’autore, che viene scolpito nei colori di Douglas Sirk e avvolto nelle morbide dissolvenze in nero. La vita nella casa tra Janis e Ana, infatti, non si rifà in alcun modo alla realtà, né al racconto cinematografico coi suoi stereotipi, bensì al Cinema stesso: vediamo la figura di Penélope, fotografa, che esegue scatti su una modella che è una sorta di Veruschka transgender. E il balletto che si innesta tra le donne nello stesso tetto è una danza dell’immagine: Janis conforta Ana, se ne prende cura, la coccola, in cambio Ana accudisce il bambino di Janis, si allontana dalla madre e avvicina a lei. Ana e Janis si baciano: la storia disegna un’ipotesi di amore lesbico, oltre a un’utopia eversiva di una società composta solo da donne, con gli uomini fuori campo, come dichiara la maglietta femminista indossata da Penélope.
Il regista rielabora la sua esperienza cinematografica, come in tutti gli ultimi film, gioca con doppi e ritorni, dramma e melò, sangue e sperma, Hitchcock e Bette Davis: d’altronde Madres Paralelas era il copione scritto da Mateo Blanco ne Gli abbracci spezzati, che usava lo pseudonimo metacinematografico di Harry Caine (come Charles Foster Kane…). Ma la chiave per leggere il film è un’altra: il tampone per il test del DNA. Usato su neonati e anziani, giovani e vecchi, essenziale per ricostruire sia il presente che il passato, perché la genetica di sicuro non mente. Gli altri coltivano la bugia: per prima Janis, che vuole scoprire la verità sulla Storia ma architetta un inganno contemporaneo, tenersi il bimbo dell’altra. E le due cose sono strettamente collegate: se si vuole disseppellire la fossa comune delle squadracce fasciste, allora bisogna prima riconsegnare il giusto bambino alla madre naturale. I veli sono intrecciati e cadono solo insieme: perché la verità è un gesto definitivo che non ammette esitazione, ieri come oggi. Fateci caso, partorire e disseppellire si possono dire allo stesso modo: venire alla luce.
Madres Paralelas è il film più politico di Almodóvar, uno che ha sempre fatto politica dei corpi: affronta la guerra civile in modo frontale, scava nel rimosso della Spagna, fa il rabdomante della memoria. E la costringe ad affiorare. In una fossa comune delle tante ancora occulte, disseminate sulla terra di Stato. La strategia per arrivarci ricorda quella di Patricio Guzmán, scritta nel documentario, che guardava al deserto di Atacama per vedere le vittime di Pinochet in Nostalgia della luce. Almodóvar lo fa attraverso un congegno stratificato che parte della storia di due donne e arriva alla Storia del Paese, intrecciando l’una con l’altra in un effetto domino. La memoria del cinema e la memoria delle stragi. Per questo non è un film politico tradizionale. Pedro lo gira nell’unico modo in cui può farlo: attraverso la politica dei sentimenti.