Il teatro dell’assurdo
Afghanistan, 2009. Gli Stati Uniti sono impegnati in una guerra contro il nemico terroristico n.1, una guerra che sembra impossibile vincere. Ma se la resa non è un’alternativa accettabile per l’establishment Americano per (ovvi) motivi di immagine e credibilità. E spesso, per portare a termine il lavoro, basta trovare l’uomo giusto.
“I came here to win”. È il credo del pluridecorato generale Glen McMahon fin dalla sua entrata in scena. Un uomo tutt’uno con la sua uniforme e le sue convinzioni. Determinato, votato ad un’esistenza intrisa di disciplina e senso dell’onore, McMahon crede fermamente nell’obiettivo della missione che gli è stata assegnata, e riesce a persuadere il gruppo di militari al suo comando che le loro azioni sul campo possono ancora fare la differenza. Sogni di vittoria realizzati attraverso l’instaurazione di uno stato di co-esistenza pacifica motivano il generale a pensare in termini di conquista territoriale, senza rendersi conto che per chi sta ai posti di comando – nelle stanze del potere a Washington – non è più una questione di ricostruzione e di liberazione (se mai lo è stata), bensì di ripulitura di panni sporchi e contenimento delle perdite. Ma McMahon non ci sta; ripiegare significherebbe compromettere l’integrità di quei principi nei quali lui crede al di sopra di ogni cosa. Si avvia da questo cortocircuito di intenzioni trasparenti ed interessi egoistici il meschino teatro della guerra – di questo tipo di guerre, in particolare -, di cui il regista di War Machine, David Michôd (Animal Kingdom, The Rover), mette in scena la pericolosa assurdità attraverso una narrazione ironica e sottile. Il protagonista è un “diverso” allo stesso tempo ammirato e guardato con sospetto – notevole il lavoro sul linguaggio del corpo effettuato da Brad Pitt in una performance che rimanda ai personaggi interpretati in Bastardi senza gloria e Burn After Reading; i politici sono figure evanescenti o impegnate in strategie diplomatiche che nulla hanno a che vedere con la realtà del campo di battaglia; e gli invasi, un popolo di disperati il cui grido di libertà ha il retrogusto amaro della supplica (“Please, leave now”). Basato sul libro The Operators di Michael Hastings, incentrato sulla figura del generale Stanley A. McChrystal, War Machine sceglie di dichiarare guerra all’ideologia e alla propaganda dietro le campagne militari sottolineandone la mancanza di coerenza interna e la falsità degli intenti, oltre le strumentali e pretenziose dichiarazioni di esportazione della libertà e della pace. “I believe you’re a good man. I do. What I question is your belief in your power to deliver these things that you describe”. Tilda Swinton dixit, e non è mai suonato più vero nella realtà mondiale in cui stiamo vivendo.
War Machine [id., USA 2017] REGIA David Michôd.
CAST Brad Pitt, Tilda Swinton, Ben Kingsley, Anthony Michael Hall, Topher Grace.
SCENEGGIATURA David Michôd (tratta dal libro The Operators: The Wild and Terrifying Inside Story of America’s War in Afghanistan di Michael Hastings). FOTOGRAFIA Dariusz Wolski. MUSICHE Nick Cave, Warren Ellis.
Drammatico/Commedia/Guerra, durata 122 minuti.