Apparenze da Festival
A tarda sera, tra le colline ventose dell’Anatolia, tre macchine viaggiano in fila indiana. Tra i passeggeri il commissario di polizia e i suoi agenti, il procuratore con il suo staff, un medico e due uomini ammanettati: vogliono ritrovare il cadavere di un terzo uomo, assassinato dai due fermati. Durante la difficile ricerca si delineano le diverse personalità all’interno del gruppo, e la notte è lunga.
Con C’era una volta in Anatolia (Gran Premio della Giuria a Cannes nel 2011), il regista turco Nuri Bilge Ceylan (già beniamino della Croisette, con i premiati Uzak e Le tre scimmie) costruisce un film che, fin dai primi istanti, strizza l’occhio al pubblico (e alla critica) da festival: da una location esotica ma non convenzionale, all’uso particolare del sonoro (voci in campo tramutate in suoni off), dall’iperrealismo di scene e dialoghi, a fugaci barlumi di poeticità d’accatto. Sotto quest’ottica ecco allora che le inquadrature in serie di scricchiolanti macchine perse nell’aspro paesaggio o di volti segnati dalla vita – sguardi persi nel fuori campo, simboleggiano un raffinato percorso esistenziale; l’insostenibile lunghezza del referto medico e del verbale di polizia elencati puntigliosamente dai vari attori (loro sì, bravi) si trasformano in sublime rappresentazione di vita quotidiana (ridateci Mike Leigh!); il dettaglio di una mela che seguiamo rotolare dal ramo ad un ruscello fino ad essere trascinata lontano dalla corrente, si eleva ad attimo di pura poesia. Ceylan lavora sull’eccesso e accumula incessantemente situazioni, dialoghi, inquadrature che sovente non aggiungono nulla non solo alla narrazione, ma anche all’approfondimento dei personaggi e all’ambientazione anatolica. Il risultato è un film prolisso che, gonfiato fino a 150 minuti, annacqua e disperde i momenti di rilievo: le scene notturne alla ricerca del cadavere, la cena a casa del sindaco di un villaggio rurale, il rapporto tra il dottor Cemal e il procuratore Nusret. Considerando le straordinarie potenzialità di racconto e descrizione del cinema attraverso la sintesi consentita dalle immagini, sfrondando e levigando parole e dialoghi per stagliarne i contorni nel renderli veri e tangibili, Ceylan ha certamente scelto una direzione opposta. In questo mantiene la sua coerenza artistica, con uno stile che, senza nascondersi, traspare dalla prima all’ultima inquadratura. Resta forte il sospetto che con 35-40 minuti in meno avremmo visto un film decisamente migliore. In mancanza della sala di montaggio, rimane aspra la delusione.
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