Apprendiamo qualcosa intorno all’arte quando sperimentiamo ciò che la parola solitudine vorrebbe designare (Maurice Blanchot)
“L’inquadratura come zona erogena”, per dirla con Serge Daney, ed è una teoria che vale per ogni film di Clint Eastwood. Cry Macho non fa eccezione nel darci una visione completamente diversa, in una storia che è già stata raccontata dal regista, cogliere la bellezza che riposa nello scarto tra ciò che ci è mostrato e ciò che ci viene negato.
A novantuno anni l’uomo senza nome di Sergio Leone ritorna con una fiaba on the road, tenera e delicata che si compone di contrapposizioni: l’americano e lo straniero, l’anziano e il giovane. Non siamo ai livelli di Gran Torino, ma il tono della dedica a un cinema che non c’è più è lo stesso.
Eastwood, nei panni di Mike Milo, è un ex cowboy da rodeo che ha perso moglie e figlia e per ripagare un debito morale deve partire per il Messico nel difficile compito di recuperare e riportare negli Stati Uniti Rafa (Eduardo Minett), figlio tredicenne del suo ex capo.
La storia è terribilmente semplice quanto efficace, e in una danza a due tra il vetusto cowboy e il ragazzino, Clint ci insegna che c’è ancora una frontiera da conquistare, e quella frontiera siamo noi. Negli scambi leggeri eppure pregni di filosofia tra i due protagonisti Cry Macho è la prova che è ancora possibile creare film on the road. Tutta la filosofia messicana, così come quella ormai ‘scomparsa’ del cowboy, si basa sul concetto di mascolinità che per Mike è un tipo di mentalità superata, benché gli prema (forse perché è figlio della sua generazione) che Rafa sia più stoico e meno puerile, che sappia cavalcare (se deve vivere in Texas) e che il suo carattere estremamente sensibile non sfoci nello stucchevole o, al contrario, in esternazioni esagerate che, ai suoi occhi di uomo realmente vissuto, risultano ridicole.
Se ‘solo le differenze si somigliano’ Mike e Rafa sono uno il contraltare necessario dell’altro, ed è in questo strano rapporto (padre-figlio? Amici?) che nasce una bellissima riflessione sulla terza età, di come, forse, la vecchiaia, non sia sinonimo di saggezza ma di un accumulo incredibile di sbagli; di come sia possibile imparare ancora qualcosa prima dell’ultimo crepuscolo; di come anno dopo anno riusciamo a fare e a ottenere sempre meno, che le certezze si sgretolano e i dubbi si accumulano o per citare lo stesso Mike: “Pensi di avere tutte le risposte poi come invecchi, capisci che non ne hai nessuna”.
Noi vediamo tutte le immagini pur non vedendole, così è anche per una trama che sembra scivolare ‘sulla superficie delle cose’. Non sappiamo cosa ha portato alla separazione tra i genitori di Rafo, così come non sappiamo com’era la vita in famiglia di Mike quando ne aveva ancora una, e le donne appaiano sullo schermo con una visione assolutamente manichea: perdute come la madre di Rafo o amorevoli come Marta, la locandiera che aiuta i due protagonisti in diverse occasioni; nonostante ciò, ogni fotogramma è una azione che racconta se stessa e non ha bisogno di altri orpelli, bastano pochi tratti per avere un quadro chiaro, per capire che è la storia di ogni americano (e non solo) che si è perduto e spera di essere ritrovato nell’immenso ventre del continente.
Clint Eastwood con Cry Macho fa lezione e dà lezione di una massima di Gustave Flaubert, e ora che si avvia lentamente nel suo personalissimo ‘cupo tramonto’ fa ancora più male soffermarci sopra a queste ultime (?) battute: “Patibolo: prima di salirvi ricordarsi di pronunciare qualche frase memorabile”. E così sia.