Primavera andersoniana
A soli due anni dal suo ultimo successo, Moonrise Kingdom, Wes Anderson concilia perfettamente l’arrivo del solstizio primaverile italiano tornando a stuzzicare la nostra fantasia ed a inebriarci con un circo di personaggi eccentrici, luoghi immaginari e colori pastello.
Il Grand Budapest Hotel non è solo il titolo della sua ultima opera, vincitrice del Gran premio della giuria al 64° Festival del cinema di Berlino; è anche e soprattutto il sito prediletto della sua ennesima fabula dolceamara, ambientata nell’immaginaria Repubblica di Zubrowka agli inizi del Novecento. Il cineasta texano ha più volte dimostrato grandi doti nella vera e propria “arte del raccontare”, che conferma anche nella sua ultima pellicola. Usufruendo come sempre di un cast straordinario, composto dai “fedeli” (Bill Murray, Willem Dafoe, Adrien Brody) e dalle “new-entry” (Ralph Fiennes, Tony Revolori, F. Murray Abraham, Jude Law), Anderson edifica una storia dai toni gialli e rosa (pastello, appunto), inserendo qua e là l’immancabile tono amarognolo. Ralph Fiennes è un formidabile Monsieur Gustave, proprietario del rinomato Grand Budapest Hotel, luogo in cui gode dell’“amicizia” delle signore più attempate e, ça va sans dire, facoltose. Egli si lega fortemente al proprio lobby-boy di fiducia, con il quale fa fronte alle accuse di furto e circonvenzione di incapace, ovvero dell’anziana benestante, da poco deceduta, la quale ha lasciato in eredità proprio a Gustave un prezioso quadro. Inizia così la rocambolesca avventura, con l’usuale inserimento di un caleidoscopio di figure demodé e un racconto a ritroso (a narrarlo è l’ormai anziano lobby-boy/Murray Abraham), ricco di gag goliardiche dall’ironia raffinatamente british. Fiennes, in particolare, risulta perfetto nella propria rigida impostazione teatrale, ricercata nella mimica e nella dialettica (che spicca particolarmente nella versione originale del film). L’esordiente Tony Revolori non è da meno, interpretando un personaggio che funge da sorgente affettiva: da un lato è oggetto di un amore quasi paterno (di M. Gustave) e di uno sentimentale (della giovane Agatha/Saoirse Ronan); dall’altro, è oggetto di razzismo e crudeltà a causa della propria etnia, ai quali il cineasta lascia il giudizio spettatoriale. In ogni minuto della pellicola si ritrova l’anima andersoniana: dal pignolo delineamento di ogni personaggio, allo studio di un perfetta location che Robert D. Yeoman ha reso un capolavoro visuale. Dall’attenzione ai dialoghi, inseriti accuratamente in una storia dai tratti mitteleuropei (non dimentichiamoci che la storia è ispirata a Stefan Zweig, cantore degli anni bui del secolo passato), alla scelta come sempre accurata delle musiche, responsabili di un’atmosfera fantasiosamente evocativa. Un’opera che regala un piacere uditivo, visivo ma soprattutto narrativo.
Grand Budapest Hotel [The Grand Budapest Hotel, USA 2014] REGIA Wes Anderson.
CAST Ralph Fiennes, Jude Law, Adrien Brody, Willem Dafoe, Bill Murray, Saoirse Ronan, Edward Norton.
SCENEGGIATURA Wes Anderson, Hugo Guinness, Stefan Zweig. FOTOGRAFIA Robert D. Yeoman. MUSICHE Alexandre Desplat.
Commedia, durata 100 minuti.