Black man, white hell
Sgombriamo il campo da equivoci, non è questione di essere fan: il talento di Quentin Tarantino come regista è un dato oggettivo. Lo si vede dalla composizione delle inquadrature ai movimenti di macchina, nella capacità di scrittura, nella caratterizzazione dei personaggi, nell’originalità dei dialoghi, nel suo gusto per la citazione e l’omaggio cinefilo, nell’abilità di creare film d’intrattenimento mai privi, però, di una lettura più profonda.
Riconoscere questo è il punto di partenza irrinunciabile. Da qui si può legittimamente lasciare spazio ai pareri personali, che possono non far apprezzare uno o più dei suoi film. Con la sua ottava fatica, The Hateful Eight, Tarantino, evento raro, sorprende solo in parte: la struttura narrativa, l’uso dello spazio, le dinamiche tra i personaggi fanno pensare a una sorta di rifacimento western de Le iene; i dialoghi “black man (al solito in minoranza contro quasi tutti) vs white men” e i sottotesti politici – violenza, razzismo e ingiustizia come elementi fondativi della società americana – sono quelli di Django Unchained. Quasi tutti i titoli della filmografia di Tarantino, pur riconoscibili nello stile e riconducibili all’immaginario del loro autore, avevano rispetto all’opera precedente qualcosa di totalmente nuovo, che fosse il genere, la costruzione della storia, l’ambientazione. Per la seconda volta (l’altra per chi scrive è Jackie Brown) un nuovo film non aggiunge molto al Tarantino che conoscevamo già. Per la primissima volta invece i personaggi principali non sono tutti equamente valorizzati (indipendentemente dal tempo diverso trascorso sulla scena). In particolare è forte la sproporzione tra “prima e seconda diligenza”: il Maggiore Warren di Samuel L. Jackson (scandalosamente ignorato agli Oscar), la satanica Daisy Domergue della rediviva Jennifer Jason Leigh e il rinnegato sudista di Walton Goggins giganteggiano su tutti gli altri in una lotta quasi impari, nonostante attori come Michael Madsen e Tim Roth (che scimmiotta il Christoph Waltz di Django). Non lasciatevi ingannare dall’ampio formato dell’immagine e dalla pastosità della pellicola 70 mm (per chi non lo vedrà in digitale), né dal nome (all’ascolto la musica è perfettamente coerente) di Ennio Morricone alla colonna sonora: The Hateful Eight non è un western, ma una commedia macabra, dalle atmosfere da giallo virate all’horror, teatrale nell’impianto, quasi priva di esterni e giocata in un unico spazio; è Carnage versione Grand Guignol in cui l’ambientazione autorizza i personaggi a mettere mano alle armi senza alcuna apparenza borghese da salvare. Tarantino mette in scena otto “inglorious bastards” e demolisce qualunque epica legata all’immaginario del vecchio West e alle sue figure archetipiche, le cui maschere cadono tra il sangue, così come fittizia è la simbolica divisione dell’emporio di Minnie in Nord e Sud, Yankees e Confederati. Tutti si odiano, tutti fingono di essere quello che non sono: la lettera di Lincoln, ovviamente falsa, chiude la vicenda come un amaro e beffardo epitaffio.
The Hateful Eight [id., USA 2015] REGIA Quentin Tarantino.
CAST Samuel L. Jackson, Jennifer Jason Leigh, Kurt Russell, Walton Goggins, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern, Demián Bichir.
SCENEGGIATURA Quentin Tarantino. FOTOGRAFIA Robert Richardson. MUSICHE Ennio Morricone.
Western/Giallo/Thriller, durata 187 minuti (versione 70 mm), 167 minuti (versione digitale).
In genere non sono un fan di Tarantino, ma questo è un film molto riuscito!D’accordo anche sul finale!
L’ho visto ieri sera. Django è su un altro livello. Le prime due ore del film mi è parso di assistere a una cena con delitto/Cluedo/trama alla Agatha Christie. Anche il teatro si è evoluto nel mentre e l’impianto del film, teatrale come sottolinea l’autore dell’articolo, è vecchio. Non classico ma vecchio (le Iene, il film al quale è paragonato, il miglior film di Tarantino, a mio gusto, è del 1992!).
L’ultima ora è un’orgia di sangue targata tarantino che, però, qui non ha giustificazione. In ultimo, e spero che non mi si prenda per bacchettona, la figura della donna è bistrattata ai limiti della misoginia. Ok, è storia che la donna in un mondo di uomini è trattata peggio di un cane rognoso ma
se per tutto il film Daisy (che vuol dire Margherita) è presa a pugni, sputi, calci, schiaffi, se le viene gettato in faccia il cibo, se le rompono il naso, i denti, se la colpiscono sulla testa e sanguina, se la sua fine è rappresentata in quel modo (agghiacciante) e tutto ciò fa ridere il pubblico in sala, beh, c’è qualcosa che non va (e non nel pubblico, eh)
Si chiamerà anche ironia ma a me mi turba…
Sarebbe anche utile però chiedersi il perché si scelga di ambientare tutta la vicenda in un emporio e – soprattutto – cosa rappresenti quest’ultimo. Per dire, è evidente che “la zona” in questione sia una metafora della nazione (gli Stati Uniti) e che i personaggi si muovano al suo interno dando sempre un significato preciso ai loro spostamenti (infatti, se ricordi, a un certo punto – come scrive giustamente Luca – Roth suddivide la geografia della baita in nord, sud, Georgia e Filadelfia). Credo che Tarantino con questo film abbia raggiunto la massima potenza sul piano della simbolizzazione dello spazio (non è un caso che abbia utilizzato il 70mm che permette molta più profondità di campo), facendo dell’interazione tra i personaggi e dei loro dialoghi una conseguenza delle loro intenzioni. E poi c’è il racconto come messa in abisso (dato importantissimo per quanto riguarda il tema del ricordo e del suo tramandarsi), la circolarità degli eventi come impossibilità di fuga dalla Storia, l’assenza della donna come figura salvifica (ti sei giustamente accorta che a differenza degli altri suoi film – escluso Le iene – la donna qua è trattata come un oggetto e non è più una specie di eroina, questo sta a significare che c’è un giudizio negativo nei confonti di chi la maltratta, è tutt’altro che misoginia). Tarantino sta portando avanti un grande discorso sulla storia degli Stati Uniti, di questo bisogna dargliene atto. E per quanto mi riguarda lo sta facendo con una profondità e uno spessore poco comuni.
Concordo con quanto scrivi Gabriele.
Ciò che in “Django” era esplicito qui è simbolico (a cominciare dalla suddivisione geografica dell’emporio appunto). Ed è pieno di dettagli, più o meno allusivi, dagli eventi rimandi politici.
Ammetto di aver visto il film due volte, perchè la prima ero troppo concentrato sullo sviluppo della storia (e la sensazione finale non era stata così positiva), mentre alla seconda visione mi sono concentrato sullo stile, sulle sfumature, e l’ho trovato un film più profondo e complesso di quanto non appaia a un primo impatto.
Anch’io ho preferito “Django unchained”, indubbiamente.
Il tuo richiamo ad Agatha Christie (si è parlato a ragione di “Dieci piccoli indiani”) è pertinente, d’altronde, come ho scritto, TH8 non è un western.
Se però guardi alla filmografia di Tarantino e alla strepitosa carrellata di personaggi femminili (dalla Sposa di “Kill Bill” a Jackie Brown) che ha messo in scena, beh, mi sembra davvero tutto tranne che misogino.
Questa è la risposta al tuo commento Gip, non so perchè me l’ha inserita sotto 😉
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