Una tragica odissea nel rimosso
Cecenia, 1999. Il piccolo Hadji, non visto, assiste impotente alla morte dei genitori per mano di due soldati russi. Credendo morta anche la sorella maggiore fugge col fratellino neonato ma, resosi conto di non potersene occupare, lo lascia davanti alla prima casa sicura. Hadji non parla più per il trauma ma l’incontro con Carole, delegata UE per i diritti umani, gli restituirà la voce e, forse, un po’ di speranza. Nel frattempo, in Russia, il diciannovenne Kolia, fermato dalla polizia, è costretto ad arruolarsi nell’esercito e a prender parte a quella che in patria viene definita “operazione anti-terrorismo”.
A guardarlo oggi, The Search di Michel Hazanavicius, sotto la nuova luce della guerra in Ucraina, fa comprensibilmente un certo effetto. Questo non soltanto a causa degli inevitabili punti in comune tra i due conflitti – dal modus operandi della Russia ai crimini commessi dai soldati, fino alle drammatiche testimonianze dei civili – ma anche per le brucianti dissonanze.
Perché è stato un conflitto invisibile quello ceceno. Una guerra rimossa, nascosta agli occhi di un Occidente troppo distratto o troppo poco coinvolto per interessarsene davvero. È proprio questa invisibilità, quest’arbitrarietà dello sguardo, il centro nevralgico di The Search. Un tema esplicitato sin dalla sequenza iniziale, con quel found footage a mostrare l’orrore quotidiano della guerra, che torna ricorrente per tutta la pellicola, dalla frustrazione dell’inviata UE – costretta a parlare di crimini di guerra a una sala vuota – alla vicenda stessa del piccolo Hadji, invisibile tra gli invisibili. È lo sguardo di quest’ultimo che il regista decide di far proprio, di adottare per restituire l’ingiustizia del conflitto, anche a scapito di un distacco che forse avrebbe consentito di raccontarne al meglio la complessità. Ma, d’altro canto, è da sempre il lato umano quello che interessa maggiormente a Hazanavicius. Una partecipazione tutta emotiva alla materia trattata capace di trasformare una triste pagina di Storia in un racconto di portata universale. Reduce dal successo planetario di The Artist, il regista francese si confronta così con un’opera solo apparentemente agli antipodi rispetto al suo più celebre film. Oltre la superficie da reportage di guerra, Hazanavicius realizza, infatti, un melodramma bellico estremamente classico. Un compendio sugli orrori della guerra fatto di tutti i topoi del genere. È così che un film che dalle premesse pareva quasi evocare il Redacted di Brian De Palma, si rivela essere, da una parte un prodotto ben più convenzionale, che tocca ogni tappa obbligata del caso senza paura di commuovere, ma dall’altra il ritratto, comunque sincero, di un orrore incancellabile. Il risultato è un’opera da cui traspare l’innegabile impegno civile dell’autore, che non ha paura di perdersi nel suo abbondante minutaggio o nell’esasperazione dei sentimenti messi in scena. Un viaggio agli inferi speculare e circolare al tempo stesso, in cui il confine tra vittime e carnefici diventa sempre più labile (la storia esemplare di Kolia, prigioniero degli ingranaggi di un sistema disumanizzante alla Full Metal Jacket) fino a farsi manifesto contro gli orrori di qualsiasi guerra. Tra Odissea tragica, il film del 1948 di Fred Zinnemann (The Search, in originale) cui è apertamente ispirato, e vaghe reminiscenze da Una tomba per le lucciole, The Search guarda fiducioso al potere del mezzo cinematografico e alla sua storia, abbandonandosi completamente alla sua anima mélo e riuscendo a far coincidere, a modo suo, la cronaca con i sentimenti, l’orrore con una speranza che forse non è di questo mondo ma appartiene tutta al cinema.