Settant’anni di Tex
La pubblicazione del primo albo a striscia di Tex risale al settembre 1948, davvero dopo settant’anni ancora c’è chi vuole leggere le avventure di un ranger che sconfigge immancabilmente furfanti e disonesti nel caotico e un tantino monocorde west di fine Ottocento? E dopo settant’anni è ancora possibile avere spunti interessanti per storie nuove e avvincenti? La risposta è sì, sì e ancora sì! Ma non è un sì semplice, né da affermare, né da accettare in risposta, senza porre o porsi ulteriori domande.
Il grande successo che tuttora riscuote Aquila della notte – questo è il suo nome presso i Navajos di cui è capo – è il simbolo di un’Italia per certi versi immutata, nel paradigma sociale e nelle individualità sia manifeste che nascoste. Per molti leggere Tex oggi è ripetere un gesto rituale compiuto per decenni, oppure ripreso dopo anni di distrazione. A Tex si torna sempre, come ad un’oasi di pace e sicurezza: chi si è dissetato alla sua fonte non potrà davvero mai dimenticarlo. La ripetizione, ci tengo a chiarire, non esclude di certo la piacevolezza, la sorpresa, lo stupore; la serie regolare, giunta quasi al numero 700, ha vissuto ormai quanto un uomo e come un uomo ha attraversato momenti di successo e di confusione, ha lottato per la maturità e ha poi dosato la sua saggezza adulta. Rileggere ora le vecchie storie, ripescando tra fumetti usati o tra le numerosissime ristampe ed edizioni in edicola e in libreria, è come ripercorrere memorie e riflettere sulle scelte fatte.
Il personaggio di Tex è molto cambiato nel tempo, passando dalle mani del suo ideatore Gianluigi Bonelli a quelle di suo figlio Sergio Bonelli alias Guido Nolitta e successivamente da Claudio Nizzi a Mauro Boselli. Al primo istintivo, determinato e riottoso Tex bonelliano è subentrata una figura più profonda e pacata, più amara e più dubbiosa, ma nulla ha davvero scalfito un’icona per certi versi monolitica, che non può non essere quello che è, che non può mai trasformarsi davvero. Tex ha del resto tutti i caratteri dell’eroe mitologico, è quasi una figura divina, agisce per necessità, guidato da un’idea superiore e dotato di una forza instancabile, sempre al vertice delle proprie capacità e del proprio controllo: è privo di cadute e per questo risulta inviso a quei lettori che mal sopportano il finale annunciato. Va avvicinato come tale, con quell’aspettativa di consolazione che per i bambini è la fiaba e per gli adulti è la dirittura morale. Tex incarna ancora quella figura inarrivabile, santa e incorrotta che è l’uomo di giustizia – attenzione, giustizia e non legge! – quella figura guida di cui la società italiana ha sempre avuto bisogno e di cui l’uomo italiano è sempre stato assetato. L’avventuroso peregrinare di Tex con i suoi tre pards, il figlio Kit, l’amico Kit Carson e l’indiano Tiger Jack, risulta così essere un mondo parallelo non dissimile da quell’immaginario picaresco e cavalleresco ricolmo di codici, onori, cortesie e peripezie di tanta letteratura: un’evasione salutare, una facile panacea, ma sotto la facciata leggera scorre un bisogno sostanziale, una ricerca nostalgica. Al volgere del nuovo secolo e in un’epoca rapida, multiforme, imprendibile e ancora non compresa, abbiamo bisogno di Tex come alla fine del XVI secolo l’Italia aveva bisogno della Gerusalemme liberata per guardare ai suoi punti fermi.
Chi non potrebbe ritrovarsi in Tex? Tex è un uomo di confine, è tutti ed è uno, è un pellerossa e un bianco, è un fuorilegge contro i fuorilegge, è fedele a tutti i giusti ed è infedele ad ogni luogo, è ovunque ce ne sia bisogno ed è sempre altrove, ha gli occhi sempre ben aperti davanti a sé ma sa prevedere cosa gli accadrà alle spalle. Sempre in viaggio, sempre di corsa, sempre in conflitto, non cerca il riposo perché il fare giustizia è per lui la pace, il silenzio, la casa: è un personaggio fortemente malinconico senza che ne riveli traccia, è senza radici ma trova accoglienza da chiunque lo riconosce per quello che è e per questo non mente, perché sa che la verità ha sempre più forza del complotto. In quanto eroe sembra provenire da un passato secolare e invece è sempre contemporaneo, se non futuro, come se tutto auspicasse a convergere sui suoi caratteri: chi non vorrebbe un mondo di giustizia, frugalità, avventura, coraggio? Chi non vorrebbe un mondo svincolato da confini e barriere? È ancora una creatura giovane quando Tex nell’albo numero 18, Dodge City, nella striscia intitolata Lupi nell’ombra – siamo nell’estate 1953 – pronuncia le seguenti parole: «Sono sempre coerente con me stesso. Buono con i buoni e duro con i malvagi, qualunque sia il colore della loro pelle», poche righe prima aveva affermato che: «Vi sono indiani buoni e vi sono, naturalmente, anche indiani cattivi. Ma se voi li tratterete da vostri pari e non come selvaggi, non avrete mai a pentirvene». Sono dichiarazioni di intenti, quasi programmatiche per la serie a venire, sono binari tracciati che, attraverso la risposta dell’uomo che sta cavalcando al fianco di Tex, vengono riconosciuti in tutta la loro assoluta alterità: «Dite delle strane parole, Willer!». Anche Bonelli stesso sapeva, in queste battute, di scrivere qualcosa di forte, forse anche di impopolare, ma è proprio su questa sua sempre inattuale impopolarità che Tex ha costruito la sua popolarità perenne.
Proprio pochi giorni fa è stata inaugurata una nuova serie legata a Tex e intitolata semplicemente Tex Willer. Avrà il compito di mettere in luce il suo passato mai veramente chiarito, in una sorta di premessa complementare alla serie regolare. Nell’albo, che contestualizza significativamente proprio il primo episodio texiano in assoluto, Il totem misterioso, il giovane Tex salva un ladro di cavalli e ne fa un amico, rispettato tra i guerrieri navajos. Sembra quasi che non abbia fatto altro da allora che cavalcare su ogni frontiera, politica e sociale, mettendola in luce e ridicolizzandola con la facilità di un colpo di Colt. La giustizia non ha muri né contorni e cavalca nell’eternità.