Sento che potrei divenire lupo
“È una storia realizzata con amore sul significato ed il valore della finzione e dell’arte, su ciò che prendiamo dal passato e su ciò che portiamo al futuro”, diceva qualche anno fa Neil Gaiman riguardo a La storia del topo cattivo.
Probabilmente era arrivato il momento di ristampare anche in Italia il capolavoro di Bryan Talbot, premio Eisner nel 1996. Ci ha pensato quindi Tunué e gliene siamo sicuramente tutte e tutti grati. Aggiungerei – a ciò che ha precisamente definito il caro, vecchio Gaiman – che è anche una storia universale, può arrivare a chiunque e può dirci chiaramente che i traumi subiti possono essere rielaborati e in qualche modo affrontati e superati.
Ce lo insegna anche la psicanalisi, è verissimo, ma il modo in cui ce lo comunica questo graphic novel e lo fa emergere delicatamente (o violentemente, a seconda dei casi) e lentamente, attraverso lo scorrere delle sue coloratissime tavole, forse non ha eguali. La vicenda, per chi non la conoscesse, è quella che vede protagonista Helen Potter, una giovanissima ragazza che subisce abusi da parte del padre e vive con una madre che non se n’è mai presa cura. Helen quindi fugge da casa assieme al suo fido e piccolo ratto alla ricerca di se stessa. Quello che Talbot mette assieme è un racconto diviso in tre parti, tra città, strada e campagna. Ogni luogo e ogni situazione servono a evidenziare l’evoluzione dei processi emotivi e relazionali che Helen è costretta ad affrontare per poter così provare a iniziare quella che sarà una nuova vita. La città è chiaramente lo spazio più complesso, dove trovare la retta via non è affatto una cosa semplice, dove ai traumi del passato rischiano di aggiungersi anche quelli ulteriori del presente; la strada è un luogo dove tutto fila in modo più lineare, dove non c’è tempo per riflettere più attentamente su ciò che è stato e da dove, se si palesa la minaccia, può anche essere più complesso fuggire; la campagna è invece la dimensione della libertà finalmente ottenuta, ma che per essere mantenuta deve accostarsi a un serio e concreto progetto di vita (la natura qua è esplicitamente un elemento importante per riuscire a comprendersi e a farsi comprendere).
In quest’opera, il faro guida per Talbot è Beatrix Potter. Per chi non la conoscesse, è stata un’illustratrice, scrittrice e naturalista inglese, famosa per i suoi libri per bambini. Le sue opere celebrano la vita nella campagna attraverso le avventure di alcuni animali e si trovano chiaramente rievocate all’interno de La storia del topo cattivo.
C’è però una distinzione: l’animale per Talbot è una figura che perde il ruolo di protagonista, ma può darci la forza attraverso il suo sguardo e il suo ascolto, che ci guida semplicemente indicandoci la via e manifestando la propria presenza. Insomma, è molto simile a quello che potrebbe essere uno psicoterapeuta o uno psicanalista. Tuttavia l’animale ha anche la forma del pericolo imminente (e qui invece lo sguardo combacia con quello della Potter), della belva o dell’essere minaccioso.
Talbot ci dice che l’obiettivo deve essere riconoscerne le forme e le essenze, eluderne il fascino per potersi così confrontare solo con la forza positiva della natura. La storia del topo cattivo è dunque un racconto che aiuta a capire che il bene e il male appartengono alla stessa entità: l’istinto. Può essere domato o può essere un elemento distruttivo. “Sento che divento lupo”, scrivevano Deleuze e Guattari in Millepiani. “È il grido d’angoscia, il solo che Freud intende: aiutatemi a non divenire lupo”.