Un senso al non senso
Il nucleo pulsante di Crash Site risiede nelle due tavole che si collocano poco prima dell’inizio del secondo atto. Due sagome ben distinguibili – abbiamo imparato a riconoscerle nella parte iniziale della storia: sono quelle del cane Denton e della sua padroncina Rosie, i protagonisti del racconto – si perdono tra i fumi del disastro aereo, si smarriscono nel grigio caliginoso e quasi gommoso del luogo impossibile che dà il titolo a questo caustico graphic novel di Nathan Cowdry.
Queste due tavole ci dicono molto (anche se non tutto) sulla ricerca di un senso nel non senso del fumetto indipendente americano.
Figurine nere che appaiono chiaramente per ciò che sono, ma che si lasciano inglobare da una coltre di colore uniforme che impedisce loro di manifestarsi nella più piena essenza. Metafora giusta per definire bene che il mondo provocante e corrosivo di lavori come questo, sotto la sua superficie fatta di personaggi grotteschi e a tratti perturbanti, contiene anche un nocciolo che racchiude pura forma e niente più. Una forma che comunque sia alle volte comunica, in maniera equivoca, connessioni che lasciano al lettore una interpretazione (nemmeno poi così libera) su ciò che sta osservando: nella seconda delle due tavole citate, l’ottava vignetta contiene infatti la silhouette di Denton che si trasfigura in quella che potrebbe apparire come appartenente a un neonato. Il senso è praticamente chiaro, ma chi legge deve legarlo – e farlo sfumare secondo quella che è la sua sensibilità – a ciò che gli è stato appena raccontato.
È chiaro quindi che Crash Site ha nel suo procedere attraverso un profilo narrativo sì ordinato, ma certamente provocante e follemente citazionista (è evidente che Denton stia a Spank come Rosie sta ad Aiko, e cioè ai personaggi principali del famoso manga Hello! Spank), intenti che dimostrano di voler condurre il viaggio maledetto dei nostri due protagonisti verso due direzioni alterne: da una parte quella ricerca di un calibrato non senso di cui parlavamo prima (e ce n’è veramente poco nella storia di una giovane donna che usa il suo cane parlante per fare del narcotraffico internazionale), dall’altra l’incredibile messa a punto di momenti che utilizzino l’apice dell’assurdo e della black comedy per produrre impossibili situazioni melodrammatiche che hanno tuttavia una sorprendente forza commovente.
Cowdry è un maestro e basta veramente poco per notarlo: per tutti i motivi sopra elencati, per la capacità di impostare perfettamente la scelta delle inquadrature, per la sapienza con cui dosa e sceglie i dettagli all’interno di ogni vignetta. E il suo “luogo del disastro” ci attrae, ci seduce, ci sconvolge e ci fa sogghignare. Insomma, la demenza è al potere e ride di gusto. In questo modo la viviamo e l’abbiamo vissuta spesso, è vero, ma metterla in scena così sapientemente – bisogna dirlo – non è mai cosa semplice né scontata.