42° Premio Sergio Amidei: Paolo Mereghetti e il remake
Quella del remake cinematografico non è poi una tendenza così nuova come si può pensare, anche se specialmente negli ultimi vent’anni, e soprattutto all’interno delle pratiche del cinema mainstream americano, è diventato un autentico modello di produzione industriale.
Proprio attorno a questo tema si costruisce la sezione Visti e rivisti della 42^ edizione del festival Premio Sergio Amidei. Il critico e storico del cinema Paolo Mereghetti si prende la briga di analizzare i meccanismi del remake mettendo a confronto originali e rifacimenti.
Così è possibile comparare il recente film di François Ozon Mon crime – la colpevole sono io con il suo antenato in bianconero La moglie bugiarda (1937) di Wesley Ruggles, scoprendo nuovi e suggestivi legami all’interno della storia del cinema, dei suoi generi e delle sue strategie di racconto. All’interno della rassegna proposta da Mereghetti, ci sono anche due film come Inside Job (2010) di Charles Ferguson e La grande scommessa (2015) diretto da Adam McKay, accomunati dallo stesso tema (la corruzione finanziaria e la crisi economica del 2007-2008) ma distanti come approccio alla materia e al genere. Il film di Ferguson è un documentario, mentre quella di McKay è un’opera di finzione che gioca con il genere della commedia satirica.
L’idea di rifare un film in maniera più o meno personale, aggiornandolo agli standard contemporanei era già presente nella Hollywood dei tempi d’oro, quando maestri come George Cukor decidevano di confrontare la propria creatività artistica e i propri stilemi con un modello cinematografico e registico già esistente. E’ nata una stella è una delle storie più celebrate e rivisitate dal tempio hollywoodiano e la straordinaria versione del 1954 diretta da Cukor e interpretata da Judy Garland e James Mason è il remake di una precedente versione di William A. Wellman del 1937 (a sua volta ispirata ad A che prezzo Hollywood? sempre di Cukor). Il cinema classico americano presenta diversi rifacimenti ispirati ad autori internazionali e I magnifici sette (1960) di John Sturges – rifatto anche da Antoine Fuqua nel 2016 – è un brillante esempio di americanizzazione spettacolare di un capolavoro della settima arte come I sette samurai (1954) di Akira Kurosawa. Kurosawa è stato un maestro del cinema internazionale e con i suoi film epici ambientati nel Giappone feudale, ha offerto parecchi spunti di ispirazione anche al nostro cinema come all’esordio nello spaghetti-western di Sergio Leone con Per un pugno di dollari (1964), dichiaratamente debitore di La sfida del samurai (1961). Ma in questi casi quella del remake è un’arte nobile, che combina le capacità di metabolizzare e rielaborare creativamente un prodotto già esistente, restituendolo sotto un’altra luce, ma senza tradirne la matrice di partenza.
Nel corso della storia del cinema, il remake come prodotto d’arte e d’ingegno autoriale si è posto in diverse maniere nei confronti del proprio referente, sia riproducendolo fedelmente che reinventandolo in maniera originale. Nel primo caso è possibile citare film come Psycho (1998) di Gus Van Sant, dove il capolavoro di Hitchcock viene riprodotto fedelmente sia nello sviluppo narrativo sia dal punto di vista della mise en scène, distanziandosi solamente nella rilettura estetica e caratteriale dei personaggi. Mentre il secondo caso è rintracciabile, ad esempio, in Salto nel buio (1987) di Joe Dante, che si ispira a Viaggio allucinante (1966) diretto da Richard Fleischer (e tratto dall’omonimo romanzo di Asimov) per stravolgerne in chiave parodica storia e personaggi.
La pratica del remake inizia a diventare un modello standardizzato dell’industria cinematografica quando i generi e le storie entrano in piena crisi creativa, a partire dalla fine degli anni Novanta. Nell’attuale mercato cinematografico siamo praticamente sommersi da rifacimenti anche di opere uscite solamente pochi anni fa e a complicare la faccenda c’è anche il reboot, che si distingue dal remake in quanto si presenta come azzeramento estetico-contenutistico del referente a cui si ispira. Ne è un esempio la saga di Batman diretta da Cristopher Nolan – Batman Begins (2005), Il cavaliere oscuro (2008) e Il cavaliere oscuro – Il ritorno (2012) – che rilancia in maniera inedita characters, ambientazione e plot narrativo di una saga già esistente. Esistono poi film che si pongono come operazione teorico-speculativa sulla pratica stessa del remake: Be Kind Rewind – Gli acchiappafilm (2008) di Michel Gondry, riflette tra umorismo e romanticismo sulle infinite possibilità di replicazione da parte del mezzo cinematografico.
Il remake in alcuni casi diventa anche il mezzo per rimodulare il plot narrativo di un film sugli usi e i costumi del Paese che decide di cimentarsi in tale rifacimento. La cara vecchia industria hollywoodiana è sempre stata tra le maggiori produttrici di questo genere di remake e, soprattutto dagli anni Ottanta ad oggi, ha cercato di “americanizzare” tutti i prodotti di successo provenienti soprattutto dal cinema europeo. Esistono remake di film italiani di ogni genere fin dagli anni Trenta, ma sono spesso le commedie ad attrarre gli Studios. Si pensi a quanto preso dal cinema francese, ad esempio, alle farse del commediografo Francis Veber: Professione giocattolo (1976) diventato Giocattolo a ore (1982); La capra (1981), con Gérard Depardieu e Pierre Richard, rifatto in È tutta fortuna con Martin Short e Danny Glover; La cena dei cretini (1998) che nel 2010 diventa A cena con un cretino, e così via.
Se si analizzano in parallelo originali e remake è facile individuare la differenza di approccio umoristico verso i propri luoghi comuni e i propri cliché culturali e popolari.