Dopo il buio, un po’ di luce. Dalle avversità, una prima rinascita. E non solo perché dopo un biennio funestato dalla pandemia siamo finalmente tornati nelle sale in condizioni più o meno normali. A colpire di più, guardando ad alcuni dei titoli che occupano le posizioni più alte della nostra classifica, è proprio questo loro intrinseco movimento intenro, insieme archetipico e drammaturgico. Non sapremo mai quanto le difficoltà, le solitudini, i meditabondi ritiri forzati di questi durissimi periodi abbiano davvero influenzato le scelte narrative dei nostri, ma da più parti si è percepita la voglia di guardare in faccia un incubo, un trauma, una sofferenza. Per poi metterla da parte. E andare avanti.
Paolo Sorrentino vince per distacco con È stata la mano di Dio, chiarendo almeno un paio di cose: a noi, che un ottimo film – ancorché doloroso – può far sorridere di una tragedia; a sé stesso, che non è necessario essere scenograficamente e narrativamente straripanti per rapire e commuovere gli occhi e il cuore. Il vero talento resta sempre immutato, e non può essere scalfito né sottostimato da rigide e pretestuose categorizzazioni di comodo (la piattaforma Netflix, dopotutto, ospita anche prodotti degni di nota). La storia di Sorrentino è una di quelle che sferra potentissimi pugni allo stomaco mentre fa godere di contemporanei «sparuti, incostanti sprazzi di bellezza». La disciplinata creatività al comando è capace di trarre gemme da dove è più impensabile.
Lo stesso, identico caso di Marx può aspettare, l’opera più personale della carriera di Marco Bellocchio. Oscillando tra film e documentario, il regista bobbiese trova finalmente il coraggio di affrontare di petto tutti i propri fantasmi, le proprie responsabilità di uomo prima che di artista: quelle che l’hanno sempre mosso, in realtà, e che a intervalli regolari si sono affacciate nelle sue opere forse meno note ma più dolorosamente autentiche perché autobiografiche.
Anche Schrader muove insolitamente verso una parvenza di speranza, con il suo Il collezionista di carte, all’apparenza un film canonicamente “alla Schrader” eppur venato di una lievissima patina di ottimismo che balena al di là di ogni cupa (ma sublime) messinscena. Un caso non molto dissimile da Drive my car, dove Ryūsuke Hamaguchi, attivissimo nell’ultimo biennio, racconta con fine levità i silenziosi tormenti di un’anima costretta a far fronte alla tragica perdita dell’amore della sua vita e all’inevitabile divenire che quella vita stessa (gli) impone. La luce può annidarsi anche in luoghi, persone e accadimenti insospettabili, basta accettare di doversi aprire, e adottare una nuova prospettiva: forse sgradita, ma necessaria e inevitabile.
Al secondo posto della nostra classifica trova spazio la spumeggiante opera di Mario Martone Qui rido io, in cui il regista napoletano, muovendosi di nuovo a cavallo tra cinema e teatro, dirige un monumentale Toni Servillo che veste i panni del commediografo Eduardo Scarpetta, padre del teatro dialettale partenopeo.
Pellicola dai toni sgargianti e sovraccarichi, quella di Martone, che fa da contraltare al soverchiante silenzio de Il buco di Michelangelo Frammartino, uno dei film più interessanti dell’ultima mostra del cinema di Venezia. Un ritratto discreto e metaforico del nostro paese, delle sue traiettorie storiche e sociali. Una gemma, quella di Frammartino, in grado di riunire in un racconto essenziale eppur altamente stratificato i sommovimenti umani universali, l’amore per la sua terra e l’arcaico, misterico legame tra uomo e natura. Per la serie: si può dire molto, moltissimo, anche non scrivendo nessuna riga di dialogo.
Completano la nostra classifica due “usati sicuri” che si piazzano rispettivamente al sesto e settimo posto. Da un lato il Wes Anderson di The French Dispatch, che delizia i propri fan con la consueta opera corale dai toni pastello, dotandola, ovviamente, dell’aura di compendio accademico in quanto a impiego scenografico e spaziale.
Dall’altro invece Denis Villeneuve e il magniloquente Dune, che si conferma prodotto commercialmente studiato per vellicare i seguaci e deliziarne i sensi. Risultato raggiunto, in tal senso, e messianiche aspettative soddisfatte – che piaccia o meno – se non latro per i fan del genere.
Nelle ultime due posizioni della graduatoria un esordio alla regia, Una donna promettente di Emerald Fennell, un brillante gioco di generi che ripropone in chiave rosa una dolorosa riflessione sulle violenze subite dalle donne; infine il rompicapo di M. Night Shyamalan, Old, dove sotto la riflessione circa l’inesorabile scorrere del tempo si agitano tensioni intime e intimiste, non scevre dalle implicazioni orrorifiche che abbiamo imparato ormai a conoscere.
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