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E ora parliamo di… Michael Cimino

sabato 3 Febbraio, 2018 | di Francesco Grieco
E ora parliamo di… Michael Cimino
Review
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Oltre il confine
Talento purissimo, intuitivo e febbrile, con studi universitari di pittura e di architettura alle spalle, quindi non cinefilo come invece sono i Movie Brats, Michael Cimino debutta come regista di lungometraggi nel 1974, con l’atipico road movie Una calibro 20 per lo specialista, dopo una gavetta negli spot pubblicitari (il commercial della United Airlines ci fa rimpiangere cosa avrebbe potuto fare, se avesse avuto la possibilità di girare un musical). La Hollywood Renaissance dei film on the road, umanisti, disillusi, adulti ma attenti al pubblico giovanile, una specie di fugace e libertario Sessantotto cinematografico, sta per lasciare il posto ai trionfi più calcolati e “business oriented” di Spielberg (Lo squalo) e Lucas (Guerre stellari).

Cimino, dunque, nasce già come regista del “dopo”, della fine del sogno, dell’individuo schiacciato dal sistema, come in King Vidor. Antieroe di un cinema reduce – che è anche un cinema di reduci di guerra solitari e senza più valori in cui credere −, desueto, fuori dal tempo (dilatato, compresso nella diegesi) ma dentro lo spazio (infinito, circolare, viscontiano, espressionista, emotivo), un cinema di un amore intatto per i personaggi, mediacritica_michael_cimino_290come in John Ford, da cui Cimino mutua anche lo sguardo affascinato sui grandi paesaggi western (“I can’t write without placing my characters in space”, afferma). La breve stagione della nouvelle vague hollywoodiana si chiude, convenzionalmente, nel 1979, con Apocalypse Now. L’anno precedente, Cimino è autore di un altro film definitivo sul Vietnam, Il cacciatore − che oltre a essere il suo capolavoro, rimane una delle opere più straordinarie della storia del cinema −, prima che Kubrick chiuda il trittico con il suo Full Metal Jacket. Il successo del Cacciatore apre le porte al titanico fallimento commerciale de I cancelli del cielo. Questo film, come sarà poi il postmoderno, proustiano, testamentario C’era una volta in America − Noodles come Averill −, è allo stesso tempo racconto non lineare che s’inabissa nei territori di frontiera, tra ricordo alterato e realtà storica, “nascita di una nazione” fondata sulla violenza, elegia di un’amicizia virile impossibile. La United Artists che lo produce va in bancarotta e Cimino deve aspettare cinque anni per tornare alla regia, con lo strepitoso L’anno del dragone, scritto con Oliver Stone, ancora un confronto a distanza tra due uomini, lo sbirro polacco White, che sembra il Michael Bronski del Cacciatore dieci anni dopo, e il mafioso cinese Tai. Due modi differenti di vivere l’immigrazione e l’integrazione, in una Chinatown ricostruita in studio, artificiale come appare la Sicilia del successivo Il siciliano. Solo Cimino poteva rappresentare un Salvatore Giuliano così tormentato. Le montagne contrapposte alle città del potere politico sono anche al centro dell’ultimo film di Cimino, dopo il remake Ore disperate. Verso il sole, lirico commiato di un maestro ormai sconfitto, film di fuga verso lo spazio aperto, il cielo, la libertà. Blue si perde nello spazio immenso e magico, e come negli altri film di Cimino, lo spettatore entra a far parte dello spazio stesso. Un’immersività, una tridimensionalità che non ha bisogno di effetti speciali da luna park, ma solo del Cinema.

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