SPOILER ALERT!
La comprensione dell’altro, la compartecipazione al dolore
Nella letteratura e nel cinema l’immedesimazione avviene sempre attraverso un punto di vista, che sia oggettivo o soggettivo, ma il rapporto del fruitore rimane in ogni caso passivo verso gli eventi narrati. Il medium videoludico fa uso di forme linguistiche simili, ma con una sostanziale differenza: il fruitore non subisce, ma è corresponsabile delle azioni.
Differenza da tenere bene a mente in The Last of Us Parte II, nonostante il focus principale sia sulla narrazione, con modello di riferimento quello dei single player story-driven. Clamoroso a livello tecnico e solido nella parte giocata, ciò che lo eleva a capolavoro però è proprio l’elemento narrativo, così tradizionale quanto una storia di vendetta. L’opera di Naughty Dog cerca e riesce a creare una sintonia empatica tra le sue protagoniste e il fruitore, che inizia da una cesura linguistica propria del cinema, il jump cut.
All’inizio impersoniamo Ellie, la ragazza che nel primo episodio era cardine di tutta la vicenda, perché unica al mondo a essere immune alle spore, per passare poi tramite jump cut su Abby, personaggio appena introdotto e del cui ruolo nella vicenda siamo all’oscuro. Alla sua violenta introduzione linguistica fa eco quella narrativa: in breve scopriamo che Abby è l’assassina di Joel. In un colpo solo viene reciso nel giocatore il cordone empatico che lo aveva legato alla saga, lo shock emotivo è sufficiente a motivare la vendetta sia di Ellie sia del giocatore, entrambi impotenti spettatori davanti alla scena brutale. La classica dicotomia tra eroe e antagonista si giustifica così facilmente, ma viene messa in crisi a metà del racconto, dove il taglio prospettico ci vede passare di nuovo da Ellie ad Abby, ripartendo quasi da zero.
È proprio da questa frattura che vengono minate le convinzioni del giocatore sulla legittimità della vendetta. Veniamo a conoscenza delle ragioni per cui Abby ha ucciso Joel, certo fatte in gran parte da cutscene e dialoghi, ma è il dover impersonare Abby – nostro malgrado – che ci porta a comprenderla e giustificarla. Un cortocircuito empatico in cui i ruoli non sono più ben definiti, ma anzi si sovvertono nel finale: trovandoci nel paradosso di dover agire – ancora una volta – contro il nostro stesso piacere, a favore di quello di una delle due protagoniste, siamo costretti a chiederci chi è davvero il buono e chi il cattivo. Abby che vendica (brutalmente) il suo padre biologico ucciso da Joel, o Elly che allo stesso modo desidera ossessivamente vendicare quello adottivo?
The last of Us Parte II diventa così un eccezionale manifesto di come due opposte posizioni possano trovare una sintesi nel giocatore, portato non solo a compartecipare al dolore, ma anche a diventare attore responsabile della sopravvivenza delle protagoniste. Non è un caso che temi tutt’oggi ancora divisivi, come l’omosessualità di Ellie, siano invece trattati genuinamente. Certo, la comprensione dell’altro passa attraverso la consapevolezza, ma anche e soprattutto attraverso l’empatia, e questo avviene proprio tramite una violenza nei confronti del giocatore. L’empatia è un atto che prevede la condivisione del dolore, e noi in The Last of Us Parte II ne siamo sia fruitori che attori.
The Last of Us Parte II [USA 2020] SVILUPPATORE SIE Naughty Dog.
DISTRIBUTORE Sony Interactive Entertainment.
PIATTAFORMA PlayStation 4.
Azione/Avventura, durata 30 ore circa.