Esercizio di regia con un tocco d’horror
È cominciato nel 1973 con L’Esorcista e da allora non ha mai smesso di suscitare una forte attrazione nelle fila degli horror: è il cinema esorcistico, che dall’uscita del film di Friedkin ha continuato a inquietare le sale e instillare dubbi nei suoi spettatori.
Mikael Håfström, seguendo anche troppo diligentemente le regole dettate dal genere, ci si dedica e ne esce Il Rito, viaggio spirituale di un giovane seminarista dall’ateismo alla fede, dallo scetticismo alla ferma certezza dell’esistenza del Diavolo, e quindi di Dio. Håfström non è nuovo a questa tipologia di film. L’avevamo già visto (anche se in modo diverso) in 1408, dove era addirittura una stanza d’albergo a New York a essere posseduta. Anche in questo caso il Male viene dall’interno, s’impossessa sottovoce della vittima per annichilirla in un’apoteosi di delirio infernale, e il corpo diventa la prigione dell’anima.
Forte e ridondante è la simbologia usata dal regista, non solo la più palese (crocefissi maestosi, madonne e simboli satanici) ma anche quella velata, legata alla tradizione popolare, primitiva e innata: è la simbologia legata alla natura, più precisamente al mondo animale. Se in 1408 tutto ruotava attorno al numero 13, ne Il Rito sono gli animali tradizionalmente (o inconsciamente) legati al male a suscitare un senso di orrore e di paura. Il film si apre con l’immagine di una mosca che si posa vicino a un cadavere e continua tra visioni di scarafaggi, voli di civette, rane, gatti e asini dagli occhi di fuoco.
Se è vero che il film segue lo schema già tracciato da L’Esorcista, quello su cui in realtà fa leva Håfström non sono “teste che ruotano e zuppe di piselli”, ma sono le paure più istintive e radicate, quelle per gli animali ritenuti infidi o disgustosi che, a prescindere dalle nostre fobie, riescono a darci subito un senso di repulsione e corruzione. È anche vero, però, che il regista non riesce ad avere quella presa che tenta di ottenere sfruttando questi elementi come punto di partenza, proprio a causa del profondo legame con i precedenti film dello stesso genere e rimane quindi solo un buon esercizio di regia. È come a scuola: è intelligente ma non si applica.