Campo minato
Quel genio indiscusso che fu Sir Alfred Hitchcock sapeva bene che per stimolare l’interesse voyeuristico degli spettatori era necessario sospenderli in una condizione di parziale vantaggio conoscitivo sulle loro controparti filmiche, i personaggi.
L’equilibrio perfetto tra piacere predittivo e abilità di sorprendere, il Maestro lo raggiunse rovesciando il presupposto fuorviante e costrittivo che vuole i generi mere gabbie narrative, rigide e limitanti. Facile per un genio (quale era, appunto, Hitchcock), si dirà. In realtà, il discorso sui generi si inserisce all’interno di un dibattito che, tanto più in epoca di racconti transmediali e forme testuali smaccatamente ibride, ravvisa nella contaminazione il vero punto di forza delle narrazioni. Lor signori d’oltre oceano – che con il cinema ci fanno un po’ di tutto, dall’opera cinefila all’arrogante filmone salva-incassi – dei generi non buttano via niente (né la rassicurante cornice rappresentativa imbastita su propaganda e stereotipi, né l’intima vocazione al superamento dei propri confini narrativi). Ma al di qua dell’oceano, i nostri cugini d’oltralpe (discendenti di quei primi, veri estimatori dell’immenso Hitch) fanno selezione e scelgono di agire sul “campo minato” della rilettura. La prova? Questo Special Forces di Stéphane Rybojad, film di guerra che diventa viaggio introspettivo, odissea lirica di morte e sopravvivenza. Subito dopo la liberazione della reporter francese Elsa, ostaggio dei talebani in Pakistan, per la donna e il commando delle “forze speciali” responsabile di averla salvata ha inizio il vero orrore. Vie di fuga trasformate in trincea rovente, lastricate di una violenza rabbiosa che accerchia, e spinge inesorabilmente verso le asperità di una terra impervia e sconosciuta. L’occhio meccanico di Rybojad registra tutto, mantenendo un’equilibrata contiguità “fisica” – di movimento e prospettiva – con la frenesia assordante e impietosa degli scontri a fuoco; ma da quella stessa realtà si distacca per affidare all’oscurità significante delle dissolvenze in nero il senso pienamente intimo del dramma vissuto da otto disperati in fuga. Otto personalità che il film riesce a delineare sia sotto il profilo militare, sia come individui legati tra loro da sentimenti di tangibile intensità. Non mancano i momenti di caduta libera nel (sempre in agguato) peccato di retorica guerresca, ma il regista riesce a non farsi prendere la mano, puntando tutto sulla descrizione misurata – ma incisiva – di un’agonia umana inscritta nelle viscere letali di una natura-matrigna. Mission accomplished: schivate le mine funeste dell’autoesaltazione e della piatta prevedibilità, il film “di guerra” si rigenera, acquista in dinamismo e potenza rappresentativa. Da seguire con rinnovato interesse, fin oltre i titoli di coda.