In un mondo di supereroi
Qualcuno un tempo diceva “chi guarderà i guardiani”? Poi un fumetto ne riprese il quesito, ma con un sottinteso malizioso che potrebbe esser letto così: “chi ci guarderà dai guardiani”?
Non andiamo troppo avanti. In principio fu Iron Man, prima vera trasposizione cinematografica di un fumetto non pensata esclusivamente al singolo supereroe, ma come parte di un universo più largo e interconnesso, che ha visto poi aggiungersi L’incredibile Hulk, Thor e Captain America con relativi seguiti. La domanda che ci si chiede, “chi reggerà le redini dell’esperienza della Marvel Cinematic Universe (MCU)?”, è un quesito fondamentalmente sterile. Perché tra il produttore esecutivo e presidente della Marvel, Kevin Feige, e il sovrintendente creativo, Joss Whedon, la rivoluzione che l’intera operazione ha messo in atto è stata quella d’aver portato al cinema il modello produttivo televisivo di suddivisione del lavoro episodica. Un processo che ha garantito sì un lavoro in sinergia preciso, ma allo stesso anche la possibilità di mascherare la monodimensionalità narrativa di eroe vs villain, per giocare principalmente con diversi generi e identità narrative. Un’offerta ampliatasi anche alla serialità televisiva, ma non solo: se diegeticamente tutto persegue il medesimo fine, lo stesso si può dire anche per quello che si trova all’esterno, con gli Avengers identificati fortemente negli attori, legati in quanto gruppo. Chiaro, qui si parla di marketing, ma l’intenzione di confondere continuamente i due piani è palese, identificando profondamente i personaggi con i volti degli attori (Robert Downey Jr. in Tony Stark), non solo volti-immagine del marchio, ma componenti di un gruppo riunito solo nel testo e paratesto dei main event (i tre film previsti sugli Avengers appunto), e che presi singolarmente alimentano un fanatismo sulla loro unione. Per questo allora sono continui i camei degli altri protagonisti all’interno degli episodi dedicati ai singoli, divenendo carburante che alimenta l’attesa al piacere spettatoriale, culminando, sia in The Avengers che in Age of Ultron, in quel piano sequenza che li racchiude uno di fianco all’altro in un orgiastico combattimento sinergico. Le famose scene post-credits non sono allora solo sequenze di connessione tra micronarrazioni e una macronarrazione, ma cliffhanger a un piacere spettatoriale rilanciato costantemente verso il futuro che non è solo di natura narrativa. La capacità del MCU è stata quella di far percepire al pubblico quelli che sono veri e propri blockbuster come step in avvicinamento all’Evento, senza far perdere importanza ai singoli episodi, aggiungendoci la geniale scheggia impazzita fuori da questo schema di divismo supereroistico (I guardiani della galassia), ma che ne conferma l’aura scanzonata. L’universo che si delinea è come un enorme sistema nervoso composto da tanti capillari che portano agli Avengers come centri nevralgici. Episodi realizzati non solo per soddisfare il godimento spettatoriale, ma soprattutto per convogliare tutto questo in un cruciale scontro e confronto di divismo supereroistico – il primo The Avengers – e che Age of Ultron ne scoperchia il punto nevrastenico, tra debolezze rivelate in sogni a occhi aperti, e una prostrazione di ego sempre più insicuri della fattibilità del mantenimento di un gruppo a difesa della Terra. La debolezza suscitata della possibilità di perdere il resto della compagine diegetica trae forza anche dalla possibilità di vedere il gruppo di Avengers in situazioni quotidiane sia come personaggi che come attori. Per questo la scena post-post-credits di The Avengers con i sei vendicatori seduti in un fast food a mangiare con gli sguardi persi nel vuoto racchiude in un certo senso l’operazione MCU, creare una certa vicinanza in un clima di scanzonato decadentismo divistico e supereroistico. Parafrasando Wachtmen, oggi viene quasi spontaneo il quesito: “come si guarderà ai guardiani?”