Volti dell’identità
Subito dopo i titoli di testa il volto di una donna appare in primissimo piano, mentre ascolta una canzone con le cuffie. Lo sguardo abbassato, persa nella musica. Poco dopo si accorge di avere dinanzi a sé un’altra ragazza, anche lei inquadrata in primissimo piano, che le chiede cosa sta ascoltando e di poter sentire. Vediamo solo i volti in alternanza, lo sfondo è totalmente fuori fuoco, in un luogo e un tempo non definiti e sfuggenti.
I volti e gli sguardi delle due ragazze, l’uno incerto, l’altro più risoluto, sono paesaggi dalle mille sfumature e la musica passa da diegetica a extradiegetica, quasi a siglare e a esprimere quella connessione.
Basterebbero questi pochi istanti a definire Ritorno a Seoul e la capacità di Davy Chou di costruire l’immagine e il racconto a partire da piccoli dettagli, che diventano di un’intensità folgorante. È già tutto lì, la fotogenia dei volti, l’importanza della musica, il non detto e la centralità della protagonista, attorno alla quale il film via via prende forma. Lei è Freddie (interpretata dalla bravissima Park Ji-min, al suo esordio cinematografico), una venticinquenne nata in Corea del Sud ma adottata da genitori francesi. Arriva a Seoul quasi casualmente e si mette alla ricerca della famiglia che l’ha abbandonata, tra amicizie e nuovi incontri. Il ritorno a Seoul è dunque un ritorno alle origini per lei sconosciute, un viaggio per tentare di colmare e rinsaldare la propria identità. Ma anche un confronto con una cultura distante, che Freddie sembra non volere e non riuscire a comprendere. “Dappertutto ci sono segni che non vediamo. Ma possiamo imparare a leggerli e a coglierli quando appaiono”, dice Freddie ai suoi nuovi amici in una delle prime scene, riferendosi alla lettura musicale a prima vista. E Ritorno a Seoul è davvero un film che si compone di lievi e improvvisi gesti, di sfumature che appaiono istantanee sui volti per tradursi in azione o per svanire subito dopo, avendo sempre Freddie come cuore pulsante. Un personaggio tormentato e istintivo, intimamente libero e illuminato da una esuberante follia.
È lei a “fare” il film ed è lei a costruire le scene e a calamitare i luoghi e il racconto. Nella prima parte Freddie sfida ogni convenzione, ogni tradizione e ogni persona che si trova di fronte (un’attitudine che si manifesta nel gesto di abbandonare le ballerine regalatele dal padre e nel ballo in solitaria nel bar), sfuggendo costantemente anche quando sembra acquietarsi, per poi trasformarsi in dark lady e apparire direttamente dall’oscurità all’inizio della seconda parte. Null’altro che maschere, dietro uno spirito che vuol liberarsi da ogni vincolo e da ogni coordinata. Un’espressione di quella malinconia che pervade l’intero film, indirizzando e affiorando man mano nelle immagini, e che cela il dolore generato dal senso di abbandono e dal misterioso silenzio della madre biologica. Persino i luoghi, spesso tenuti ai margini dai frequenti primi piani, sembrano una proiezione della protagonista, della sua iniziale e sfrontata indifferenza e successivamente del suo cambiamento, con una Seoul neon-noir.
Come già accennato, è la musica che molto spesso si lega al racconto e alle sensazioni del personaggio. La musica “che viene da dentro”, come afferma lei stessa riferendosi a una canzone che ascolta solo nella sua mente e che si fa espressione dei “segni che non vediamo”. Proprio come nell’incipit, nelle due sequenze di ballo e nel finale, dove con la musica e con la lettura a prima vista di uno spartito risuonano un destino ancora incerto e una persistente solitudine. E se le lingue e le culture diverse diventano talvolta ostacoli insormontabili e alienanti, i volti (e i primi piani) e la musica appaiono come linguaggi molto più puri, specchio diretto dell’interiorità.