Top Gunny
In un momento culturale in cui sembra che opere e prodotti degli anni ’80 siano l’unico carburante per immettere idee nell’industria audiovisiva, era inevitabile che Top Gun, tra i film più simbolici dell’intero cinema americano, avesse un seguito, e che diventasse un caso di studio, a suo volta un simbolo, di questo momento storico. Ci hanno pensato il produttore Jerry Bruckheimer, che aveva già in mente un seguito nel 1986, e lo stesso Tom Cruise, uomo-macchina-cinema totale, che ha assunto come regista uno dei suoi uomini di fiducia, Joseph Kosinski.
Top Gun: Maverick, pronto dal 2020 ma in attesa di una situazione pandemica adatta a un’uscita tambureggiante (hanno avuto ragione: al momento in cui scriviamo il film ha raggiunto il miliardo e 300 milioni di dollari di incasso, diventando il film di Tom Cruise più ricco di sempre), vede il Maverick eponimo alle prese con la sua età, almeno dal punto di vista spirituale, perché fisico e morale non sono cambiati (e non va a vantaggio della sua simpatia).
Oggi addestra e vola, ha preferito l’azione alle possibilità politiche come ha fatto il suo “rivale” Iceman (Val Kilmer in un cameo commovente) e quando si tratta di eliminare un potenziale obiettivo pericoloso, sarà lui a dover guidare i giovani Top Gun, tra i quali Rooster (Miles Teller) e il figlio dell’amico Goose, della cui morte Maverick si sente ancora in colpa. Ehren Kruger, Cristopher McQuarrie (altro fiduciario dell’azienda Cruise) ed Eric Waren Singer compongono uno script in cui la necessità di titillare le corde nostalgiche dello spettatore diviene la miccia per far esplodere l’avventura e non il materasso su cui crogiolarsi, ampliando l’azione alle possibilità tecnologiche contemporanee – e un uso calibrato degli effetti digitali a vantaggio di meravigliose riprese aeree (fotografia di Claudio Miranda) – e riflettendo sulla nostalgia piuttosto che venderla. Aperto da titoli di testa che sono la copia carbone di quelli originali, con le stesse immagini, le stesse musiche di Harold Faltermeyer e la canzone Danger Zone cantata da Kenny Loggins, Top Gun: Maverick è in realtà una reale evoluzione di un film che può essere considerato un classico solo in virtù di una sindrome dell’età dell’oro che colpisce gli spettatori oggi 30/40enni, un figlio del suo tempo che però a differenza dei veri classici non è mai cresciuto, non ha mai accompagnato lo spettatore, è rimasto lì a baloccarsi con quell’estetica fatta di filtri, controluce, ralenti e sintetizzatori, che da Tony Scott (regista del film) è passata a Michael Bay attraverso il filo conduttore di Bruckheimer. Cruise, Kosinski e gli sceneggiatori sembrano accettare quell’eredità e, soprattutto dal punto di vista ideologico, non fanno nulla per criticare l’etica militarista e in fondo bellicistica, fondata sul culto del vincitore, del leader da servire, del bisogno d’azione (“Need for speed”), della retorica del superuomo, o meglio del super-anziano, che è divenuta credo politico.
In questo senso, Cruise sembra volersi costruire una strada da futuro Clint Eastwood e questo è il suo Gunny, eppure questo ritorno di uno suoi personaggi più celebri batte il predecessore proprio sul terreno che quasi 40 anni fa decretò quel successo: Top Gun: Maverick dà una vera forza emotiva a quei personaggi, alle loro personalità problematiche, permette al tempo passato di arricchirne i contorni, facendo sfumare la nostalgia in consapevolezza del passato e bisogno di superarlo, riflettendo sulla differenza tra invecchiare e crescere. Soprattutto, lo sorpassa in termini di azione e spettacolo: le sequenze aeree sono ideate, realizzate e soprattutto montate (da Eddie Hamilton e Chris Lebenzon) meglio, alla frenesia si sostituisce la tensione e una sorta di estasi dell’altezza e del volo. Per una volta, l’omaggio a un’epoca e alle sue immagini, finisce col divenire un gesto di azione e pensiero che rispetta lo spettatore.