Il logorio della vita ottocentesca, ma senza Cynar
Presentato in concorso alla 73a Mostra del Cinema di Venezia, dove ha vinto il premio Fipresci e dove da molti è stato considerato uno dei film più interessanti della selezione, Une vie di Stéphane Brizé è ispirato all’omonimo primo romanzo di Guy De Maupassant.
È il racconto di una vita intera, quella della nobile Jeanne De Perthuis De Vauds, senza però, al contrario di quello che si dice accada al cinema, le scene madri, che agiscono in maniera indelebile sull’esistenza della protagonista, ma che avvengono sempre fuori campo. Che sia il matrimonio con un nobile un po’ egoista e ottuso, la scoperta del suo tradimento, la nascita del figlio o la morte dei genitori, questi momenti fondamentali, potenzialmente felici o più spesso drammatici, vengono raccontati soprattutto nelle loro conseguenze sull’interiorità della protagonista e sulla sua progressiva e sempre più inesorabile chiusura nei ricordi (la giovinezza spensierata e i primi baci con l’amato marito, per esempio) e nell’infelicità. Il film è infatti il ritratto di un personaggio che, in fin dei conti, non ha mai deciso e non ha mai avuto la forza di far prevalere la propria volontà e le proprie idee, e che in qualche modo ha sempre subito la vita, limitandosi semmai ad osservarla o a idealizzarla (il ricordo del figlio e l’inutile attesa di un suo gesto d’affetto): per esempio, in un’inquadratura ricorrente, affacciata alla finestra guardando la pioggia cadere. Brizé asciuga il pathos tipico del melodramma e del romanzo ottocentesco puntando sul racconto del lento logorio effettuato dall’ordinario e dalla quotidianità intesi nel loro senso peggiore. Lo fa, oltre che con la costruzione narrativa elittica, quasi escludendo gli ambienti e gli spazi esterni con il formato 16:9 che imprigiona nell’inquadratura la protagonista e la sua sofferenza, quasi sempre al centro della scena (le pochissime eccezioni sono, appunto, alcuni degli effetti delle scene madri rimaste fuori campo), e alternando continuamente la caduta negli inferi del presente con i ricordi del passato, testimoni di una felicità fugace e forse illusoria. Brizé realizza un melodramma algido, algidità che si riflette nella molto apparente essenzialità stilistica, ma tutt’altro che freddo; emotivamente distaccato, ma tutt’altro che emotivamente inerme. Per quanto l’emotività dello spettatore venga conquistata alla lunga, in maniera quasi inconsapevole, e per quanto sembrerebbe che l’autore richieda a chi osserva lo stesso distacco da lui mostrato, alla fine dei conti è difficile rimanere indifferenti a questo ritratto di donna alla deriva e alla sua vita sempre più a pezzi. Una vita è sotto molti punti di vista imparentato con un altro film in uscita nelle sale italiane tratto da un romanzo ottocentesco: Lady Macbeth di William Oldroid.
Una vita – Une vie [Une vie, Francia/Belgio 2016] REGIA Stéphane Brizé.
CAST Judith Chemia, Jean-Pierre Damoussin, Yolande Moureau, Swann Arlaud.
SCENEGGIATURA Stéphane Brizé, Florence Vignon. FOTOGRAFIA Antoine Héberlé. MONTAGGIO Anne Klotz.
Drammatico/Sentimentale, durata 119 minuti.