Le regole del gioco
Ogni gioco ha le sue regole, e quelle del successo per teenager sembrano ormai consolidate: un ciclo di romanzi campione di vendite, un’ambientazione che ibrida realtà e fantastico, un triangolo amoroso.
La trasposizione su grande schermo è solo il coronamento finale, sostanziato in dollari e biglietti staccati.
Quel che più interessa, in casi come il recentissimo Hunger Games, è un inquadramento del pubblico di riferimento e delle ragioni di un successo. Per ogni Twilight in vetta alle classifiche di vendita e d’adorazione incondizionata, ci sono centinaia di progetti abbandonati su scaffali polverosi. La ricetta, apparentemente banale, a volte funziona, a volte no. Il risultato su grande schermo di un prodotto pensato primariamente per fan già indottrinati è indissolubilmente legato al racconto di partenza. Gli adattamenti di Harry Potter sollevano più di una protesta da parte degli irriducibili (perché si tratta di una narrazione complessa e stratificata, della quale su pellicola approdano quasi solo gli aspetti meramente spettacolari), quelli di Twilight raccolgono sospiri soddisfatti (da un intreccio costruito sull’assenza di vere contrapposizioni deriva solo una sequenza di scenette giustapposte, all’interno delle quali il target di riferimento può rintracciare visivamente tutti i dettagli che aveva immaginato). C’è più di un punto d’interesse in Hunger Games, primo fra tutti lo slittamento dai territori del fantasy a quello della sci-fi, genere che da sempre problematizza la realtà più che fornire vie d’evasione. L’autrice della storia, Suzanne Collins, non inventa nulla di nuovo, ma sembra possedere una certa abilità nel mescolare temi e suggestioni, allacciando ispirazioni mitologiche da Grecia Classica al futuro preconizzato da Orwell o dal cyberpunk, legando insieme echi di tanto cinema e tanta letteratura, da Il signore delle mosche fino a Battle Royal. Del resto l’idea della storia, nelle dichiarazioni della stessa Collins, è scivolata fuori dalle pieghe di una televisione liquida, dal limite confuso che (non) separa reality show e reportage di guerra. Quel che non scatta, nel film di Gary Ross interpretato da Jennifer Lawrence (in una sorta di sequel distopico di Un gelido inverno), è dovuto proprio all’aderenza al modello industriale di sfruttamento dei successi per young adult. Per quanto scarsamente originale, il soggetto per un ottimo film di fantascienza c’era tutto: invece il risultato è la semplice trasposizione in immagini di un testo letterario che, di partenza, non ha aspirazioni troppo alte. Si punta al medesimo target adolescenziale, si ottiene una serie di scene fedeli al libro, all’interno delle quali i lettori possano riconoscere esattamente quel che si aspettano. Nulla di più, nulla di meno. Il prodotto è ben confezionato, curato nei dettagli, ben recitato dal variegato cast, pronto a non scontentare nessuno. Ma restano sopite le scintille rivoluzionarie della storia, una critica possibile al nostro modo di guardare una realtà sempre più mediata da schermi, specchi, strutture di finzione spacciate per verità. Domina l’intrattenimento puro, vuoto d’inquietudini, dal ritmo incalzante, ma effimero una volta spenti i riflettori. Certo, Katniss Everdeen è (evviva!) un’eroina come si deve, finalmente distante dai contorni deleteri della bamboleggiante Bella Swann. Ma la sua presenza scenica non è abbastanza per soffocare il retrogusto amaro di una possibilità perduta, al pensiero di quel che avrebbe potuto essere se, per una volta, si fosse deciso di trasgredire le regole del gioco.