Più in là, più in là, più giù
Tonya di Craig Gillespie entra di diritto in quella tendenza che cerca di dare maggiore complessità e ambiguità al vituperato “bio-pic”, per molti il genere più didascalico, dove è più difficile fuggire alle maglie della monodimensionalità, dell’agiografia e della semplice esposizione dei fatti; film che cercano di creare un rapporto più forte tra racconto biografico e realtà del contesto raccontato, anche – anzi, soprattutto – con la forza delle ambiguità.
Tonya è infatti dedicato ad un personaggio ambiguo e contradditorio: la pattinatrice Tonya Harding, famosa per essere stata la prima atleta ad avere eseguito il quasi impossibile triplo axel, così come per essere un oggetto estraneo alle aspettative e alle apparenze tipiche del mondo del pattinaggio artistico. Sboccata e verace, Tonya è infatti tipicamente “white trash”, abituata fin da piccola a convivere con la violenza, l’aridità dei sentimenti e dei rapporti, il maschilismo violento e possessivo e lo “sfruttamento emotivo”. La Harding è diventata celebre soprattutto per il suo presunto coinvolgimento nell’aggressione alla rivale Nancy Kerrigan, che le costò la carriera e nella quale il suo ruolo non è mai stato davvero chiarito.
Il film ruota principalmente intorno a questo fatto. A Gillespie però la ricostruzione del fattaccio e la verità interessano poco; interessa molto più comporre il ritratto di un simbolo vivente del fallimento e della sconfitta e raccontare l’evaporazione di un talento enorme mai esploso a causa di qualche colpa propria e soprattutto a causa del contesto. Partendo dalla simbolica figura d’incompiuta della Harding e del suo radioso avvenire rimasto dietro l’angolo, Tonya vuole infatti essere il ritratto problematico e contraddittorio di una fetta di società: l’America più profonda annusata con la puzza sotto il naso, povera e abbandonata a se stessa, dove non basta un enorme talento per poter fuggire e che continuamente si cerca di nascondere come la polvere sotto il tappeto. Tra i molti temi sfiorati, il contrasto tra la “white trash” e il mondo delle apparenze e delle aspettative diffuse e ufficiali è forse il più interessante e problematico.
Tonya sarebbe quindi potuto essere un film, data l’attualità, politico, presente e urgente. Nella superficie può sembrarlo, ma nella sostanza un po’ meno. Raramente scandaglia la realtà, limitandosi ad enunciarla in maniera più furba che efficace. Discorso simile per il coinvolgimento emotivo più immediato; c’è un senso di adrenalinica partecipazione che svanisce presto e raramente una reale intensità che rimane ed emoziona. Questione (anche) di stile? La cinepresa aggressiva e lo stile roboante più che il barocchismo del citato Scorsese ricordano il virtuosismo d’accatto di registi come David O. Russell; quindi sì, forse è anche in parte una questione di stile.
Tonya [I, Tonya, USA 2017] REGIA Craig Gillespie.
CAST Margot Robbie, Allison Janney, Sebastian Stan, Paul Walter Hauser, Julianne Nicholson.
SCENEGGIATURA Steven Rogers. FOTOGRAFIA Nicolas Karakatsanis. MUSICHE Tatiana S. Riegel.
Biografico, durata 119 minuti.